«Non ero un attivista, anzi la politica non mi interessava. Ciò nonostante un giorno alcuni rappresentanti del partito comunista sono venuti a prelevarmi e hanno cominciato a chiedermi insistentemente cosa ne pensassi del governo. Mi dissero di non preuccuparmi e di esprimere liberamente il mio pensiero. Solo dopo ripetute richieste, affermai che non ritenevo giusta la politica oppressiva da esso adottata. Successivamente venni imprigionato in un campo di lavoro, senza nemmeno essere processato. Un giorno un mio compagno mi chiese perchè ero stato incarcerato e io gli risposi che non ne avevo idea. Fece delle ricerche all’interno del campo e mi informò che ero stato condannato all’ergastolo». Harry Wu, presidente della Laogai Research Foundation, ha fatto tappa anche a Gorizia per raccontare la sua triste storia, documentata nel libro “Laogai. L’orrore cinese”, ma soprattutto per portare all’attenzione dell’opinione pubblica la realtà dei laogai. I laogai sono dei campi di lavoro cinesi in cui venivano e vengono rinchiusi i “controrivoluzionari” che devono essere sottoposti a “rieducazione”. Ma, soprattutto, sono la prova che nel continente asiatico il progresso economico, accelerato da un capitalismo aggressivo, non è andato a braccetto con l’instaurazione di una democrazia sostanziale. Maggiori “libertà” godute da ampie fasce di popolazione, infatti, convivono accanto a veri e propri campi di concentramento, un ibrido tra fabbriche e miniere, che alimentano un export aggressivo di prodotti a buon mercato. Si stima possano essere 15 milioni le persone morte finora all’interno dei laogai. La ragione dell’internamento è l’appartenenza alla “classe sbagliata”, peraltro la stessa dei dirigenti del Partito Popolare cinese. Harry Wu, figlio di un banchiere, discendente di una famiglia di ricchi proprietari terrieri perdipiù cattolico, presentava tutte le caratteristiche del “nemico di classe”. Nel 1956 viene arrestato una prima volta per aver espresso un giudizio negativo sul partito comunista durante la Campagna dei Cento Fiori, senza essere processato, con la testimonianza dei suoi familiari costretti a denunciarlo che deponeva a suo sfavore. Solo la madre si sottrae a questa perversa logica delatoria, suicidandosi, ma questo Harry Wu lo scopre solo al termine della sua prigionia, durata 19 anni. Egli fortunatamente viene scarcerato nel 1979, grazie alla politica di liberalizzazione seguita alla morte di Mao, e si trasferisce negli Stati Uniti dove tuttora risiede. Per anni ha taciuto la sua tragedia, preferendo dedicarsi all’insegnamento della geologia, ma negli ultimi dieci anni ha deciso di avviare un’intensa campagna di sensibilizzazione sulle gravi violazioni dei diritti umani che vengono compiute anche nei campi di lavoro. La condanna di Harry Wu, infatti, è di portata ben più ampia. Troppo poco si sa di ciò che accade ai margini della Grande Muraglia e di come il regime interferisca anche sugli aspetti più intimi della vita delle persone, ad esempio la decisione di avere un figlio. Forse non molti sanno che in Cina vige una rigorosa politica di controllo delle nascite, per l’applicazione della quale è possibile addirittura ricorrere all’aborto coatto e alla sterilizzazione. Un altro aspetto inquietante messo in luce in un precedente libro (“Cina. Traffici di morte. Il commercio degli organi dei condannati a morte”), riguarda il commercio di organi, che vengono espiantati dai cadaveri dei prigionieri politici, fucilati “all’occorrenza”. Quello che Harry Wu vuole ottenere con il suo impegno, che peraltro si è concretizzato nell’allestimento del primo museo permanente al mondo sui laogai cinesi, è sensibilizzare l’opinione pubblica su una realtà, quella dei laogai, sconosciuta per certi aspetti anche agli stessi cinesi, che sembrano addirittura non conoscere il significato della parola “laogai”. Sembrerebbe ci siano ancora 1000 laogai in cui lavorano più di 4 milioni di persone. Un dato che deve far riflettere e, a nemmeno un mese dal giorno della Memoria, ricordare che eistono realtà geograficamente lontane a noi sulle quali, tuttavia, per un processo di globalizzazione sempre più spinto, possiamo intervenire anche con piccole azioni quotidiane.
ElSa
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