Ieri, 3 maggio, c’è stata l’annuale commemorazione dei goriziani deportati e “scomparsi” negli anfratti carsici, giusta e mesta memoria di coloro che hanno perso la vita, a guerra altrove finita, nei tremendi 40 giorni di occupazione da parte delle truppe jugoslave. Un pensiero a tutti coloro che sono morti e ai familiari privati anche della pietas di un fiore da collocare su una tomba. E’ stato uno dei purtroppo tanti sanguinosi strascihi della seconda guerra mondiale, ancora in pieno svolgimento in Oriente fino al botto atomico che ha annichilito Hiroshima e Nagasaki.
E’ vero che per molti anni l’argomento “foibe” non è stato certo al centro dell’attenzione, in particolare al tempo dei governi targati Dc preoccupati di salvaguardare i complessi e delicati equilibri geopolitici della seconda metà del Novecento. Del resto lo stesso è accaduto per ciò che concerne la memoria di altri tragici eventi, compreso quelli relativi ai campi di sterminio, Si pensi ad esempio che Papa Paolo VI nel suo viaggio in Terra Santa del 1964 non fece alcun cenno alla Shoah, non nominata neppure nel contemporaneo Concilio Vaticano II, che “per mancanza di tempo” l’argomento era raramente affrontato nei corsi di storia nelle scuole superiori del tempo e che la Giornata della Memoria è stata istituita poco più di una decina d’anni fa.
La situazione è cambiata dopo cinquanta anni – il normale tempo richiesto per una più serena disanima storica degli eventi – e ormai da almeno 15 anni la questione del confine orientale d’Italia è all’ordine del giorno: da allora si sono moltiplicati gli studi storiografici ormai parte di una bibliografia molto ampia e articolata; commissioni miste italo slovene hanno redatto importanti documenti condivisi; associazioni come Concordia et pax hanno proposto ogni anno interessanti “sentieri della memoria” e in accordo con le associazioni dei familiari di deportati hanno messo in gioco molte energie per ricercare la “verità”; la fiction letteraria e cinematografica ha trovato un vero e proprio patrimonio di spunti che hanno generato opere più e/o meno apprezzate.
Forse di tutto ciò non si è accorto il sindaco Romoli che si è detto pentito “di non aver ancora strappato il velo di silenzio che avvolge da sempre quegli avvenimenti”. Sono frasi che un amministratore non può pronunciare in modo ripetitivo e rituale, quasi a ricercare un facile consenso in un ambiente molto provato dal dolore: se possono essere comprese in chi è stato toccato nella propria carne dalla scomparsa di un proprio caro non possono essere giustificate quando a pronunciarle è un “primo cittadino” al quale sono richieste conoscenza dei fatti, prudenza nei discorsi e saggezza amministrativa.
Che dire? Una vergogna! Negare, distorcere o velare fatti continuamente è una cosa indecente ed è tutt'altro che buona coscienza. Ottimo articolo di Andrea Bellavite che non ha peli sulla lingua, cosa rara in questi tempi… 😉
Concordo pienamente con il contenuto e la forma di questo intervento, e l'avrei letto con piacere anche sulla stampa, per una più ampia platea. E' insopportabile il persistere delle rituali esternazioni sul doloso e "colpevole silenzio", che avvolgerebbe da sempre i fatti. Un paio di giorni or sono il "Piccolo" ha riportato le parole di se stesso cinquant'anni fa, ed erano tutt'altro che silenzi anche allora, per quanto la politica e lo stato delle cose nel 1960 permettevano. Molto è stato detto e scritto, e giustamente qui si ricorda come il mondo abbia visto anche altro – e da questo non si può prescindere, pena la disonestà, soprattutto negli amministratori. Nessuno si accorge delle difficoltà che ancora incontrano le controparti nell'elaborare la decapitazione dell'esercito polacco a Katyn o i massacri e le sevizie dei giapponesi verso Cina e Corea? Inoltre – sia ripetuto a chi continua a dipingere un unico agnello sbranato da un unico lupo – non s'intende mancare di rispetto ai nostri deportati ed ai loro familiari. Non ci sarebbe bisogno di dirlo, ma questa mentalità logora anche con il paventare di continuo inesistenti oltraggi. Chi si riempie la bocca con l'Italia e la sua bandiera è sempre pronto al distinguo locale, alla difesa di qualcosa. Nel 2004 non avremmo dovuto tenere cerimonie "con il sorriso di Prodi" in occasione dell'ingresso della Slovenia nell'UE, perché per noi sarebbero stati problemi a livello cittadino, con riguardo a sovvenzioni, concorrenza, trattamenti fiscali e microeconomia. Cosa vera e da affrontare, ma cosa facciamo? I musi lunghi a livello nazionale ed internazionale perché a Gorizia dobbiamo studiare correttivi ed aggiornamenti, peraltro sulla bocca di tutti da anni? Possiamo discutere sull'ingresso improvviso di troppi Stati, ma è un'altra cosa. Lasciamo perdere le recenti espressioni ridicole, sempre della destra locale, sul "cattivo" tasso di conversione dell'euro e l'ingresso nella moneta unica: senza di essa saremmo da tempo peggio di quanto stia oggi la Grecia, e la Lega Nord che all'epoca insisteva con le lire della peraltro "occupatrice" Italia e definiva l'UE "forcolandia" e covo di burocrati esprimeva un'ispirazione che ci avrebbe mandato in malora, poichè non si distrugge la casa, ma la si ristruttura insieme. Altro esempio: il 25 aprile è festa nazionale, data simbolo per ricordare la liberazione da nazismo e fascismo, e in tale prospettiva nazionale va vista. No, qui ogni anno qualcuno specifica che per noi non ci fu liberazione il 25 aprile, bensì il 12 giugno, e che non tutti gli antifascisti furono democratici. Sempre così, continui brutali distinguo, che, sebbene corrispondenti nella sostanza a verità, si sovrappongono alla visione comunitaria, nella quale la festa è definita come una sintesi. Sempre lì a ingrandire il particolare del nostro orizzonte locale, come se gli altri non avessero analoghi problemi economici o tragedie sulle spalle e come se questo particolare non andasse doverosamente inserito in un altro ambito di lettura e di lavoro: storico, dell'occupazione, di riconoscimento delle vicende e della composizione del tessuto sociale. Altrimenti non sarà mai finita: ognuno ha la dignità della propria vicenda. Sembra inutile chiedere a certuni di tener separato il collegio elettorale e il proprio ego da una visione superiore: i primi devono sempre prevalere, magari con espressioni fumose o sgangherate, senza che i problemi si risolvano nella prospettiva di competenza e senza che si parli da cittadini dello Stato ed europei quando le circostanze richiamano tali abiti. Fino a implodere, a morire di se stessi. E la responsabilità sarà sempre di terzi, su cui scaricare derisione e astio.