Carlo Michelstaedter nasce il 3 giugno 1887 a Gorizia dove muore il 17 ottobre 1910. Una breve parabola esistenziale, poco più di 23 anni trascorsi in buona parte sui libri, compresi gli anni dell’Università a Firenze, tra il 1905 e il 1909. Tuttavia il suo transito attraverso il mistero della vita ha lasciato un segno, inciso nel profondo anche dal colpo di pistola che lo ha strappato all’affetto dei suoi familiari e consegnato alla storia della cultura europea del primo Novecento. I perché del suicidio resteranno rinchiusi nel segreto di un cuore inquieto, anche se molti ricercatori hanno indagato proponendo la teoria dei sentimenti feriti piuttosto che quella del timore di un male incurabile. Ciò che resta è il suo ampio patrimonio di scritti e di disegni artistici, in particolare la tesi di laurea “Rettorica e persuasione”: in essa viene individuato un progetto esistenziale proteso verso l’appropriazione delle ragioni del vivere e del morire, una volontà di vita intensa fino al presentimento della necessità di oltrepassare l’istinto di sopravvivenza spingendosi oltre le colonne d’Ercole costituite dall’estremo limite della vicenda umana. Insomma, volontà di spasmodicamente vivere senza il condizionamento della morte, volontà di spasmodicamente morire riempiendo di intensità ciascun istante della vita.
Riecheggiano temi cari alla cultura filosofica europea, si incontrano e si scontrano le suggestioni ottimistiche degli idealizzatori delle ragioni kantiane con le malinconiche riflessioni di filosofi del paradosso come Kierkegaard e le profetiche visioni del super-uomo di matrice nietzschiana. In altre parole, nella breve ma significativa impresa filosofica e forse ancor di più nella meno esplorata poetica si incrociano i temi portanti del pensiero moderno, alla vigilia dello scontro con gli iceberg della prima guerra mondiale e di tutte le immani tragedie ad essa seguite: una sorta di canto del cigno della filosofia occidentale, là dove l’”essere” aristotelico già spazzato via nella sua versione tomista dal “cogito” cartesiano, viene estremizzato dallo scorrere del sangue fino all’affermazione dell’assoluta insignificanza: l’essere è il nulla, affermerà qualche anno dopo Jean Paul Sartre.
Tutti questi pensieri non vogliono portare un ulteriore contributo al ripensamento della figura e dell’opera di Carlo Michelstaedter, ci si augura che altri esperti possano in quest’anno centenario offrire nuovi e inediti contributi. Si vuole invece sottolineare come all’alba di quello che oggi viene definito il “secolo breve” la Gorizia austro-ungarica viveva un periodo di particolare atmosfera culturale. Il nome del filosofo Goriziano era accompagnato da quelli di altre grandi personalità, da Paternolli a Pocar, dalla stessa zia di Carlo Carolina Luzzatto fino alla nobile figura dell’arcivescovo sloveno mons.Sedej. Se Claudio Magris ha descritto dal punto di vista letterario tale temperie nel suo bellissimo breve romanzo “Un altro mare” dedicato a Enrico Mreule le splendide e – ahinoi – tanto dimenticate via Ascoli e san Giovanni consentono ancora di respirare l’aria cosmopolita e vivace caratteristica di un periodo nel quale ci si poteva sentire ebrei, sloveni, italiani o austriaci senza doversi per questo nascondere o provare addirittura timore.
I nazionalismi hanno devastato Gorizia che in pochi anni da importante centro culturale della cosiddetta Mitteleuropa è divenuto un triste centro commerciale sopravvissuto allo scorrere del tempo grazie alla carenza di generi di prima necessità che caratterizzava la Jugoslavia e ai generosi contributi statali che hanno consentito di mantenere una zona franca fino alla vigilia dell’ingresso della Slovenia nell’Unione Europea.
Quanta ricchezza umana è andata perduta! Chi ha pagato più di ogni altro è stata proprio la comunità ebraica, praticamente annientata tra il 1943 e il 1944, dopo aver offerto alla città i frutti più ingegnosi e geniali della letteratura, della filologia e dell’arte. Carlo Michelstaedter riposa nel suggestivo cimitero di Rozna Dolina sotto un piccolo cippo fino a un paio d’anni fa protetto da un albero giapponese, un sempreverde dalla forma di una mano tesa verso il cielo. Ora quell’arbusto non c’è più e il luogo è esposto alle intemperie o alla calura estiva. Si vuole ricordare con quell’immagine il “nostro” illustre concittadino. Nella spe¬ranza che Gorizia rifiuti per sempre la rettorica e sia finalmente – e con convinzione – persuasa.
Dal periodico Strade, aprile 2010
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