E’ motivo di grande dolore la morte di quattro giovani in Afghanistan. Ma è anche un segnale su cui riflettere. Nelle prime tragiche occasioni in cui si sono verificati in passato simili episodi i politici raccomandavano “di non strumentalizzare gli eventi lasciando ad altri momenti la polemica sulla situazione”. E così, oltre a dimenticare ben presto i caduti e le loro famiglie gran parte degli italiani ricorda che “siamo in Afghanistan” soltanto quando le colonne dei quotidiani riportano i titoli in prima pagina. Chi sa perchè le truppe sono nel martoriato Paese asiatico? Chi si domanda cosa “stiamo” facendo laggù? O quali risultati ha ottenuto l’enorme sforzo militare messo in piedi dalla “banda di Bush” all’indomani dell’11 settembre 2001?
Eppure lo stillicidio è sotto gli occhi di tutti e non è solo l’Italia a piangere; certo più di ogni alto piangono gli Afghani, stremati da una guerra dopo l’altra, dalla fame e dal tasso di analfabetismo di gran lunga più alto di tutta l’Asia; oltre che da un potere religioso integralista e da una concezione della donna minimamente intaccati, anzi ben rafforzati dalla gigantesca campagna militare ufficialmente scatenata quasi dieci anni fa “contro i (più vivi che mai) Bin Laden, il mullah Omar e i suoi talebani e a favore della libertà “occidentale”…
A quando dunque lo stop a un conflitto che nasconde (come sempre del resto) tutt’altri motivi rispetto a quelli dichiarati? A quando il ritiro delle truppe e la loro sostituzione con i “corpi civili di pace” sotto l’egida dell’Onu? A quando almeno la tanto decantata riforma delle “regole d’ingaggio” per dei soldati che non sono in missione umanitaria bensì sul fronte di una sanguinosa guerra?
Mentre i politici discutono e non concludono niente, l’unica possibilitù di non celebrare nuovi funerali di Stato sembra affidata soltanto alla buona sorte!
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