La recente trasmissione Fazio/Saviano dedicata alle delicate vicende di Piergiorgio Welby e Eluana Englaro è stata seguita dalle vivaci proteste delle associazioni cosiddette “pro-life”.
Premessa: chi scrive ritiene giusto che tutti abbiano accesso ai salotti televisivi e possano presentare il proprio punto di vista su simili temi, a condizione che conoscano l’argomento, siano onesti e abbiano effettivamente qualcosa da dire. Ancor più giusto è che chi sceglie (l’interessato o i suoi familiari) di non interrompere le terapie che lo tengono in vita sia sostenuto da un servizio sanitario all’altezza della situazione; ha ragione la madre coraggio goriziana intervistata oggi da un quotidiano locale che racconta il calvario e le peripezie che ha dovuto affrontare bussando a tutte le porte possibili per ottenere il riconoscimento del diritto di poter mantenere in vita il proprio figlio in stato vegetativo: a lei sono dovuti sostegno, ammirazione e solidarietà.
Non è giusto invece chiedere a Fazio/Saviano di ridurre una questione del genere a uno squallido gioco delle parti: la trasmissione aveva lo scopo di raccontare due vicende alquanto coinvolgenti, portate in primo piano non dal teatrino dei benpensanti ma dalla voce e dallo sguardo tristemente sereni di una moglie e di un padre. C’era da ascoltare e commuoversi, domandarsi come ci si sarebbe trovati al posto loro, eventualmente immaginare risposte diverse, punto e basta; magari raccontando in altri contesti storie di persone che hanno preso – o subito – decisioni differenti, così come del resto accaduto nelle trasmissioni televisive e radiofoniche oltre che su molti quotidiani nei giorni successivi. Invece si è scatenata la solita tempesta, chi invocava la par condicio, chi rispolverava l’avanzata del radical marxismo, chi la virulenza della campagna mediatica contro la Chiesa cattolica, eccetera eccetera.
Ciò che sconcerta davvero è in effetti l’utilizzo fuorviante delle terminologie.
Chi è per il prolungamento a oltranza delle funzioni vitali garantite soltanto da macchinari si autodefinisce “per la vita” proponendosi più o meno esplicitamente come alternativo a chi ritiene invece disumano portare avanti simili cure e che di conseguenza sarebbe “per la morte”. Bastava ascoltare senza ristrettezze mentali Beppino Englaro e Mina Welby per evitare di incorrere in simile crudele equivoco e comprendere l’ovvia possibilità di “essere per la vita” in modi diversi.
E’ poi in atto una venefica confusione intorno alle “tecniche”ed è difficile invocare la buona fede quando a provocarla è un membro del governo come la Roccella: nel caso di Welby non è stata praticata alcuna “eutanasia”, bensì è stata rispettata la sua volontà di cittadino di interrompere un accanimento terapeutico “staccando la spina” del macchinario che lo manteneva in vita; a Eluana Englaro, la volontà preventiva della quale si è potuta con certezza dimostrare, sono state interrotte alimentazione e idratazione rese possibili esclusivamente da complicate attrezzature artificiali che soltanto con molta fantasia potrebbero essere definite “naturali”. Cosa centra tutto questo con l’eutanasia, che è un atto direttamente finalizzato a provocare la morte di una persona consenziente?
Ben vengano dunque trasmissioni come quella dell’altra sera, ben vengano i dibattiti e le differenti esperienze; ma siano garantiti agli spettatori la competenza e la serietà professionale dei “tecnici” insieme alla dignità dei testimoni chiamati in ultima analisi a raccontare storie di dolore e di malinconia.
Andrea Bellavite
Rispondi