Alle nubi radioattive del Giappone si aggiungono i forti venti di guerra che soffiano in un momento storico di estrema delicatezza.
La situazione della Libia pone all’autentica politica pressanti interogativi.
Sul campo la gente muore. Questa è la prima amara constatazione: sospinta dalla brezza della cosiddetta primavera nordafricana una parte consistente del popolo libico è insorta contro il rais Gheddafi che da decenni dominava apparentemente incontrastato il Paese. La “rivolta” all’inizio ha incassato le simpatie delle leadership mondiali, come accaduto per i più fortunati egiziani; poi ha dovuto fare i conti con le lentezze e gli interessi delle diplomazie e si è trovata assediata, minacciata da purtroppo prevedibili sanguinose ritorsioni. Sta di fatto che nel deserto e nelle città libiche si muore sotto le bombe; e che di conseguenza chi può cerca di fuggire.
L’Onu decide l’intervento militare, almeno come deterrente e garanzia del rispetto della no fly zone. Lo decide contro la Libia con l’appoggio di alcuni Paesi arabi, mentre altri Paesi arabi dove pure la gente si ribella e muore (vedi per esempio Yemen e Barhein) non sono sottoposti a medesimo trattamento: l’attenzione alla Libia dipende dalla volontà di offrire una punizione esemplare o dalla necessità di tutelare più che le persone gli interessi petroliferi “occidentali”? Del resto la scelta è drammatica: creare un pericoloso precedente con un’operazione di gendarmeria internazionale negli affari interni di uno Stato sovrano o abbandonare centinaia di migliaia di insorti al proprio destino?
L’Italia affronta la questione con particolare imbarazzo. Il premier – sempre lui! – ha accolto un paio di mesi fa Gheddafi a Roma con una solennità degna di un Pontefice romano, si è perfino lasciato ridicolizzare dal rais libico e ha sottoscritto accordi di collaborazione quanto meno improvvidi e vincolanti. Ora deve dimostrare un pugno più duro di quello degli altri per far dimenticare l’ingombrante amicizia. Ma se il presidente Napolitano afferma accorato che “il momento è difficilissimo” le preoccupazioni berlusconiane sembrano maggiormanete rivolte agli ex finiani rientrati nell’ovile grazie alla “nobile” promessa di ben compensati sotto segretariati di fatto negati dai sacrosanti limiti numerici previsti dalle norme vigenti. Non mancano le preoccupazioni per una guerra combattuta “alle porte di casa”, con il conseguente carico di timori per l’incolumità del territorio e per l’intensificazione del già drammatico flusso migratorio: ciò che sta accadendo in questi giorni nella stremata Lampedusa potrebbe essere solo l’inizio di una serie di guerre fra poveri che potrebbe mettere in ginocchio il traballante sistema Italia.
Infine l’imbarazzo del mondo pacifista. Le guerre contro Saddam Hussein, l’embargo quasi decennale all’Iraq, l’occupazione militare dell’Iraq nascevano – almeno ufficialmente – dalla necessità di fermare un dittatore che aveva invaso il Kuwait, trascinato il suo popolo in una guerra estenuante con l’Iran, massacrato oppositori politici e “gasato” intere città abitate da curdi. Il movimento pacifista internazionale aveva contestato con mai ripetuta intensità l’intervento americano e degli alleati, perfino Giovanni Paolo II aveva cercato di scongiurarlo con saggi ma forti ammonimenti a Bush e ai potenti della Terra. Lo stesso papa aveva richiamato l'”ingerenza umanitaria” invece nel caso dei soprusi durante la guerra del Balcani suscitando ondate di perplessità tra i pacifisti; perché si dovrebbe accettare per Gheddafi un trattamento che era denunciato come violazione del diritto internazionale (ammesso che esista) nel caso di Hussein e Milosevic? Il bivio sembra piuttosto stretto: un mancato intervento militare consentirebbe con ogni probabilità un grande massacro militare; ma l’accettazione silenziosa di un intervento militare – questa volta targato Obama – contraddirebbe il principio quasi dogmatico del “no alla guerra senza se e senza ma” caratteristico di altre stagioni politiche e culturali dell’occidente.
Insomma, un brutto guazzabuglio, anche perché i semi di rinnovamento del Nord Africa non sono poi così evidenti e nessuno ha ancora ben capito cosa attenda le Nazioni che si affacciano sul Mediterraneo dopo il rovesciamento dei loro capi e capetti. E non si può sapere dove potrebbe condurre un’escalation bellica in una zona ben più ampia rispetto al più classico concetto di “Medio Oriente”. Incrociamo le dita e soprattutto speriamo in leader mondiali all’altezza della gravità dei tempi.
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