Correva l’anno 1978, quello del caso Moro e dei tre pontefici: dopo Paolo VI e il mese di Giovanni Paolo I iniziava l’era di papa Karol Wojtyla. La sua presenza sulla scena mondiale durerà oltre 26 anni ed è impossibile sintetizzare in poche righe il contenuto dottrinale, i gesti più eclatanti, gli oltre cento viaggi in quasi tutte le Nazioni del Pianeta, le testimonianze personali di fede e di coraggio, il modo di affrontare pubblicamente la sofferenza e la morte. Nessuno può negargli un ruolo da assoluto protagonista nell’ultima parte del Novecento e negli anni immediatamente successivi a quel Giubileo del 2000 che tanto aveva atteso come l’auspicabile inizio di una nuova stagione di pace e giustizia. Alcuni ricordi, tra le migliaia possibili: il 1979 con il primo “ritorno” trionfale in Polonia e la pubblicazione della prima enciclica “antropologica” Redemptor Hominis; gli anni ’80, quando è stato tra i protagonisti del percorso che ha condotto alla “caduta dei muri” del novembre 1989; gli anni ’90, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, della Confederazione Jugoslava, la nascita di tanti Stati indipendenti sulle loro ceneri, ma anche con le terribili guerre nei Balcani; i primi anni 2000, con l’attentato alle Twin Towers di New York e l’avvio delle guerre contro l’Afghanistan e l’Iraq.
La Chiesa, da tredici anni uscita dal grande Concilio Vaticano II e poi dal sofferto pontificato di papa Montini, ha vissuto con Wojtyla una stagione paradossale: da una parte la sua personalità prorompente e alcuni segni autenticamente rivoluzionari (tra gli altri la preghiera delle religioni per la pace ad Assisi nel 1985, la straordinaria richiesta di perdono giubilare per le “colpe” della Chiesa, le visite alle sinagoghe, alle moschee e a altri luoghi di culto non cristiani) hanno consentito una visibilità mediatica e un tripudio delle folle da lungo tempo dimenticati; dall’altra il processo di secolarizzazione è proseguito nella post e ultramodernità allontanando sempre più clamorosamente la coscienza dei cattolici dai riferimenti magisteriali nonché svuotando progressivamente le parrocchie e i luoghi tradizionali di aggregazione cattolica.
Domani Joseph Ratzinger lo proclamerà “Beato”, secondo dei tre gradini che portano alla canonizzazione (il primo è il riconoscimento delle virtù eroiche di un “Servo di Dio”): un procedimento importante anche se non rientra nella categoria delle proposizioni “non infallibili” del Papa. Un riconoscimento che non premia soltanto la statura morale e religiosa di un singolo, ma che ha sempre anche una grande valenza sociale e culturale: la Chiesa in qualche modo si riconosce nella figura che innalza agli onori degli altari e lo presenta come modello da seguire per realizzare pienamente la propria vocazione e missione cristiane.
Senza nulla togliere al “magno” Giovanni Paolo II la cerimonia di domani non ha suscitato soltanto l’entusiasmo dei sostenitori del “Santo subito”, ma anche i dubbi di chi ritiene che per sottolineare e riproporre il valore storico di una simile complessa testimonianza occorra ben più che un quinquennio (per Giovanni XXIII sono stati necessari 40 anni, per Pio IX – e con quante polemiche! – 130); e che sia quanto meno inopportuna (oltre che del tutto inusuale) una proclamazione da parte dell’immediato successore e in precedenza suo più stretto collaboratore: ciò può suscitare l’impressione di una sorta di auto giustificazione e di un rilancio di una “linea” che in questi ultimi cinque anni – lontano dalle luci della ribalta internazionale – ha dimostrato di essere tutt’altro che assimilata e condivisa dal “popolo cattolico”.
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