Sembra che in queste ore si consumi l’ultimo capitolo della dittatura di Gheddafi: il rais ha le ore contate e i “ribelli” stanno per prendere il potere.
Certo, è un bene, il colonnello è un personaggio tutt’altro che raccomandabile, un dittatore che ha radicato la sua fortuna politica nella ricchezza del sottosuolo libico e nelle contraddizioni dei responsabili delle democrazie occidentali: come dimenticare in questo momento l’accoglienza di Berlusconi nelle recentissime visite a Roma, i patti sottoscritti e in tutta fretta stracciati nel momento della “caduta in disgrazia”?
Tuttavia proprio l’incertezza dell’Occidente apporta molti “se” e molti “ma” a questa strana “liberazione”: una guerra scatenata dalla Nato che è durata al di là di ogni limite temporale ragionevolmente prevedibile, senza alcuna chiarezza sugli obiettivi e sui risultati; una “vittoria” di non mai meglio identificati “insorti” dei quali non si sono capite ancora bene le correnti politiche, le alleanze religiose e la reale rappresentatività popolare; un futuro tutto da scrivere in un contesto nordafricano e mediorientale che si sta riscaldando di giorno in giorno. Come non osservare che i primi atti dell’Egitto liberatosi solennemente di Mubarak – insieme alla passata quasi sotto silenzio “provocazione” israeliana costata la vita alle guardie di frontiera egiziane – sembrano indicare di nuovo la strada da tempo abbandonata della guerra contro Israele?
Insomma, è giusto condividere la soddisfazione per la fine di un dittatore, ma è più difficile condividere gli entusiasmi di chi vede in ciò che sta accadendo la “primavera” del Nord Africa e l’inizio di una nuova stagione della storia…
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