Sui ciò che è accaduto dieci anni fa sono stati scritti fiumi di parole e tale profluvio di opinioni è inversamente proporzionale alla possibilità di comprendere il senso degli avvenimenti.
La linea Bush ha prolungato la catastrofe delle Twin Towers in una guerra senza confini e senza tempi che ha seminato il doppio dei morti fra i soldati inviati a “ristabilire l’ordine” e cinquanta volte tanti morti tra le ipermartoriate (e dimenticate) popolazioni dell’Afghanistan e dell’Iraq.
La linea Obama ha impresso una marcia diversa alla guerra “contro il terrorismo” cercando di risolvere dal basso i problemi delle dittature nord-africane, con risultati alterni e tutti da verificare. Nel frattempo, accanto a vecchi mostri mai del tutto sopiti (possibile recrudescenza del conflitto arabo israeliano con le tensioni tra Israele ed Egitto e tra Israele e Turchia) continua a dominare una parte del mondo la minaccia del disastro umanitario, là dove i morti per fame raggiungono qualche angoletto mediatico se superano il numero di qualche decina di migliaia: ed è anche questa – anche se è scomodo farne memoria – una conseguenza delle scelte economiche, politiche e militari del Nord del Pianeta.
Il ricordo di ciò che è accaduto 10 anni fa – una data ormai impressa nella mente dell’Occidente come l’8 settembre o il 25 aprile in Italia – potrebbe generare una nuova consapevolezza se si avesse il coraggio di tornare a quei giorni del “siamo tutti americani”: non scegliere la funesta via finora seguita della “guerra infinita”, ma di un’immensa impresa di pace in grado di ripristinare il ruolo dell’Onu attraverso un’adeguata riforma. Soltanto un’autentica cessione di potere da parte dei singoli organismi nazionali e la conseguente possibilità di intervenire nelle situazioni delicate potrebbe affrontare i problemi della globalizzazione economica e garantire un legittimato arbitrato internazionale.
L’alternativa è lo sprofondare in un baratro senza prospettive e senza fondo.
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