Gli stipendi astronomici e i privilegi riservati a parlamentari e consiglieri regionali suscitano inevitabilmente rabbia e costernazione, ma non sono certo novità dell’ultima ora: sono almeno vent’anni che circolano lettere e mail – relegate di solito ai margini della posta “importante” – nelle quali con precisione si sono evidenziati i trattamenti scandalosi. Ciò che sembra incredibile è che praticamente a nessuno degli interessati sia venuto in mente di contestare finora questa anomalia italiana, neppure un piccolo gesto di autoriduzione di grande valore simbolico (e di resa in termini elettorali). Qualcosa è stato fatto nelle amministrazioni locali dove – a fronte di bén più eque remunerazioni – c’è stato chi si è auto ridotto il gettone di presenza o addirittura ha rinunciato a qualsiasi compenso.
Per questo ora sentire alcuni parlamentari di lunga navigazione che di fronte alla grande offensiva mediatica del momento si stracciano le vesti e invocano percorsi brevi per la riduzione dei costi della casta suscita fastidio quanto ascoltare quelli che difendono la posizione affermando assurdità sul rapporto con gli stipendi bén più contenuti dei colleghi europei: dove hanno vissuto nell’ultimo ventennio i vari Fini, Schifani, Bersani, Casini, Bindi, Bossi e Calderoli? E quelli in Regione (tutti meno tre, uno di rc, uno di idv e un dissidente pd) che hanno bocciato meno di due anni fa perfino la domanda di discutere sul referendum regionale ad hoc? Forse la lezione del governo Monti ha almeno aperto gli occhi sulla povertà propositiva della classe politica italiana e potrà sollecitare un rinnovamento generale di volti, posizioni e gruppi per la sopravvivenza stessa degli istituti costituzionali della democrazia rappresentativa.
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