L’11 ottobre 1962 papa Giovanni XXIII dichiarava l’inizio del Concilio Vaticano II. Andrà avanti oltre tre anni, fino l’8 dicembre 1965, presieduto dalla metà del ’63 da Paolo VI. Tempi lontani, caratterizzati da forti tensioni internazionali, ma anche dalle speranze della kennedyana “Nuova Frontiera” e dei primi segni precursori del ’68. Nelle intenzioni di papa Roncalli l’assise doveva aggiornare l’annuncio evangelico alle esigenze dei nuovi tempi. In realtà i documenti conciliari contengono i semi di un’autentica rivoluzione: approvati praticamente all’unanimità, essi testimoniano due prospettive radicalmente diverse, da una parte la necessità di riformare forme e linguaggi con uno sguardo maggiormente simpatetico nei confronti della realtà, dall’altra quella di cambiare in modo rivoluzionario la Chiesa. Da una parte la riproposizione della razionalità intrinseca dell’affermazione da parte della ragione dell’esistenza del “principio e fine di tutte le cose”, premessa “naturale” al dispiegarsi del disegno soprannaturale di Dio; dall’altra il superamento della dualità fede/ragione in nome della contemplazione estatica del Mistero che abbraccia ogni essere umano – consapevole o meno di tale privilegio – chiamandolo a far parte della sua divina famiglia. Da una parte la riproposizione della struttura gerarchica della Chiesa; dall’altra la concezione della chiamata ad essere semplice segno e strumento dell’amore di Dio nei confronti di ogni creatura. Da una parte la riaffermazione del sacerdozio cattolico basato sul sacramento dell’Ordine; dall’altra il superamento di ogni distinzione “essenziale” in nome del sacerdozio universale di tutti i fedeli e della pura funzionalità dei ministeri e dei servizi ecclesiali. Da una parte la convinzione della Chiesa cattolica “pienezza della Verità”; dall’altra il riconoscimento della comune origine e destinazione di ogni vivente, del contenuto salvifico delle vie religiose non cattoliche e non cristiane, della benefica provocazione dell’ateismo consapevole. Da una parte la centralità del Magistero, esclusivo interprete autorevole della Parola di Dio; dall’altra la libertà di coscienza, unico punto di riferimento per il discernimento e la scelta del bene e del male. Dopo il Concilio il cattolicesimo si è trovato di fronte alla necessità di decidere quale delle due vie intraprendere: se Paolo VI è stato titubante, Giovanni Paolo II ha di fatto dilazionato con la sua prorompente personalità la necessità di affrontare con urgenza i problemi. Papa Ratzinger, preoccupato della deriva nihilista della postmodernità, ha scelto e sta indicando una strada dal suo punto di vista “certa”: la via della logica, dell’etica e dell’estetica aristotelica tomista rivisitata alla luce del personalismo del XX secolo. E’ una delle due strade contrapposte presenti nel Concilio, quella della Civitas medievale, rifugio sicuro per un’umanità disgregata. L’altra via, quella della condivisione leale della vita del mondo e della rinuncia ad ogni forma di potere in nome dell’imitazione del Cristo nudo, ha da poco perso con Carlo Maria Martini il principale sostenitore. C’è bisogno di un nuovo Concilio? No, la linea “dimenticata” riemergerà, porterà alla fine il “cattolicismo” favorito 1600 anni fa da Costantino e Teodosio, condividerà con le altre confessioni cristiane il dono dell'”unità nella diversità” e con le altre religioni il nome di un Dio che vuole che ogni uomo sia “salvo”. Cioè pienamente realizzato nelle sue dimensioni politica, culturale e sociale quaggiù… ma anche aperto alla possibile speranza nell’esserci, al di là della morte, di uno spazio infinito e di un tempo eterno, in ogni caso totalmente in-comprensibili nelle categorie della razionale conoscenza umana. Andrea Bellavite
Rispondi