Ho letto, con vivo interesse, la lunga intervista rilasciata dal Vescovo di Roma Francesco al direttore della Civiltà Cattolica. Non ci sono novità rispetto alle parole e ai gesti quasi quotidianamente testimoniati da questo grande comunicatore, ma c’è la possibilità di analizzare in modo più critico e sistematico il pensiero e le linee d’azione che caratterizzano l’inizio di un pontificato “rivoluzionario”.
Rivoluzionario non per ciò che concerne i dogmi o i regolamenti della Chiesa, non c’è alcun segnale di una prossima concreta ridefinizione delle “regole” riguardanti la liceità dei possedimenti, le questioni riguardanti l’inizio e la fine della vita che fino a poco fa i Vescovi italiani dichiaravano “non negoziabili”, l’amore etero ed omosessuale, il celibato dei preti e il sacerdozio femminile – solo per portare qualche esempio.
Rivoluzionario invece per ciò che concerne gli atteggiamenti, e ciò fin dalle prime due parole pronunciate in piazza san Pietro subito dopo l’elezione: se i Papi precedenti hanno iniziato con il classico “Sia lodato Gesù Cristo” ovvero con l’affermazione “urbi et orbi” della “Veritas christiana”, Francesco si è presentato con un molto semplice e umano “buona sera”, l’augurio che invita l’altro a una relazione simpatica e costruttiva. La Chiesa, dal ratzingeriano medievale baluardo della logica, dell’etica e dell’estetica contro il minaccioso avanzare del pluralismo relativista, diventa il francescano (in tutti i sensi) “ospedale da campo il giorno dopo la battaglia”, chiamata a farsi carico e condividere le ferite di un’umanità affranta. “Non si fa l’esame del colesterolo a chi sta per morire di fame”, nota Francesco indicando nell’accoglienza, nell’abbraccio solidale e nella relazione fraterna con tutti, ma proprio con tutti gli altri esseri umani in qualunque condizione essi si trovino a vivere, la via maestra dei discepoli del Vangelo; “ci sarà sempre il tempo per riproporre ciò che la Chiesa ha sempre detto…”
Il successo strepitoso di un Papa che entra nelle periferie della contemporaneità, incontra le persone nel carcere e nei centri di identificazione ed espulsione, abbraccia malati nel corpo e nello spirito, telefona a chi ne ha bisogno e interloquisce con il “laico per eccellenza” sulle pagine di Repubblica… evidenzia che le dimissioni di Ratzinger sono state un saggio 25 luglio per la Chiesa e che la gente è scesa in strada per inneggiare alla ritrovata valorizzazione della propria semplice umanità. Pone anche una domanda, come l’atteggiamento di un Papa così affascinante e coinvolgente inciderà sulle gerarchie e sulla “base impegnata” del cattolicesimo, in particolare italiano? L’ovvio “saltare sul carro del vincitore” che caratterizza le dichiarazioni di prelati, giornali e perfino movimenti cattolici stra-vicini al predecessore indica una reale conversione alla novità della relazione che precede l’imposizione della verità oppure è soltanto un modo per circondare Francesco di un affetto apparente, ma sufficiente a disinnescare la sua carica rivoluzionaria?
Il terreno su cui la comunità cattolica, soprattutto italiana, dovrà misurarsi, è quello di una situazione di privilegio e di “centralità” anche economica che mal si concilia con l’invito a “uscire dalle chiese per incontrare le periferie della storia”. Anche quella periferia delle periferie – così drammaticamente debole e così fortemente decisiva – che è la Politica. E chissà se un giorno a chi l’aveva intuito molto tempo prima sarà riconosciuta almeno l’intelligenza della profezia?
Andrea Bellavite
Il papa parla dell'idolo denaro, del sistema che mette al centro i soldi e non gli uomini e le donne. In una società che parla solo della crescita economica e del pil, qualcuno che parli del vitello d'oro come un male, mi sembra non solo condivisibile, ma molto realistico, più delle idiozie che dobbiamo sciropparci tutti i giorni. L'intelligenza della profezia sarà riconosciuta molto presto, prima di quanto noi stessi ci aspettiamo, come sarà riconosciuta l'onestà delle scelte, la mancanza di ipocrisia, il disinteresse personale.