A distanza di tanti anni, si può ancora dire, si deve ancora dire, “se questo è un uomo”.
Avviene in Italia, più precisamente in Puglia, nel 2017.
La Corte d’Assise di Lecce condanna quattro imprenditori del Salento e nove “caporali” africani alla pena di undici anni di reclusione per riduzione in schiavitù e associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento dei lavoratori.
I fatti risalgono a cinque anni fa. Un gruppo di lavoratori impegnati nella raccolta delle angurie e dei pomodori si ribella ai suoi sfruttatori per le terribili condizioni in cui sono costretti a lavorare e a vivere.
Orari di lavoro interminabili, paghe infime, alloggi precari e non igienici, ricatti, minacce, percosse.
A capeggiare lo sciopero dei braccianti è un camerunense, Yvan Sagnet, Presidente dell’Associazione No Cap, impegnato, anche a livello internazionale, per far conoscere questi soprusi.
Sempre nel 2011, ma successivamente ai fatti contestati, viene introdotto nell’ordinamento italiano il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, altrimenti detto “caporalato”.
Tale nuova fattispecie di illecito penale intende colpire in maniera specifica il reclutamento di operai generici e il loro trasporto sui campi o presso cantieri edili per esser messi a disposizione di un’impresa utilizzatrice, che pagherà il “caporale” che fornisce la manodopera.
Questo reato è collocato tra i delitti contro la persona, in particolare tra i delitti contro la libertà individuale, ed è punito con la pena della reclusione da cinque a otto anni e con la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.
Per il Legislatore costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti circostanze: la sistematica retribuzione in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionata rispetto alla quantità ed alla qualità del lavoro prestato; la sistematica violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, al riposo settimanale, alle ferie; la sussistenza di violazioni della normativa sulla sicurezza ed igiene nei luoghi di lavoro; la sottoposizione a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o situazioni alloggiative degradanti.
Non si può, dunque, che accogliere con grande soddisfazione questa sentenza, che sanziona uno dei comportamenti più odiosi che l’essere umano possa porre in atto e penso sia doveroso dedicarla alla memoria di Paola Clemente, morta di fatica, a 49 anni, il 13 luglio 2015, ad Andria: dodici ore di lavoro al giorno per ventisette euro di compenso.
so.sa.
Spaventosa la vicenda di Paolo Clemente, morta di lavoro mentre faticava insieme a braccianti neri ugualmente sfruttati. La magistratura di questo si occupa, la cosa che sconcerta è la mancanza della politica che ad esempio non lega la questione dell'immigrazione a quella dello sfruttamento e alla diminuzione delle paghe, inevitabile se un lavoratore è sotto ricatto
Molto probabilmente avere manodopera a basso costo fa comodo a molti…