Quando parliamo di immigrazione o di accoglienza, solitamente, siamo divisi tra favorevoli e contrari, impegnati a difendere o ad attaccare ma il fenomeno è qualcosa di più complesso, di più radicato, di più concreto per le vite di alcuni di noi.
Lo sanno bene i dipendenti del CARA di Gradisca d’Isonzo, impegnati quotidianamente nello svolgere un lavoro delicato, difficile e poco pagato.
Ogni giorno hanno a che fare con la diversità, con il dolore, con il disagio. In questi anni, le vere vittime del non governo del fenomeno migratorio nella nostra provincia sono state loro.
Un calvario senza fine, passato attraverso chiusure e riaperture del CIE, tra allargamenti e restringimenti del CARA, tra gestioni di cooperative poco sociali come fu quella della Connecting People. Mesi e mesi senza stipendio, sempre presenti sul posto di lavoro per fornire un servizio fondamentale per il nostro territorio, poi con la cassa integrazione ancora vittime dei ritardi dell’Inps.
Nel 2015 la cronaca nazionale riportò la notizia dei richiedenti asilo che donavano alimenti ai dipendenti del CARA isontino. Delle merendine del distributore automatico che le donne, le mamme lavoratrici portavano a casa per i loro figli.
Quella fu forse l’immagine più significativa di questa triste vicenda, un’istantanea amara e dolce, il simbolo di un paese allo sfascio, di uno Stato incapace di occuparsi di chiunque e allo stesso tempo la dimostrazione che la solidarietà è un sentimento che non conosce razze ed etnie, è solo un moto del cuore, che emerge con forza proprio nei momenti difficili.
La solidarietà del povero verso il povero, come quella dimostrata dai lavoratori nei confronti dei loro colleghi, lavoratori disposti, per lavorare tutti, per essere tutti riassunti, a firmare, di concerto con le categorie sindacali, una clausola che di fatto prevede la flessibilità delle loro retribuzioni rispetto al numero degli ospiti del centro.
Negli ultimi mesi gli ospiti del CARA sono circa 600, considerando l’mmobilismo di molte amministrazioni rispetto all’accoglienza diffusa, ed i dipendenti del CARA percepiscono circail 92.5% della loro retribuzione ma lavorano, lavorano tutti.
Qualche giorno fa, trionfalmente, è stata annunciata la decisione da parte del Governo di chiudere il CARA e di riaprire, con altro nome (CPR) il CIE, struttura chiusa dopo gli scontri del 2013, dopo la morte di un detenuto che preferì lanciarsi dal tetto che restare recluso in quel lager che quotidianamente violava la sua dignità di essere umano, di migrante detenuto amministrativamente perchè clandestino, perchè scappato dalla fame e miseria, e non da una guerra.
Decisione presa ed annunciata come una vittoria, percepita come una vittoria dai locali amministratori, nonostante la contrarietà alla riapertura di nuovi lager espressa in un ordine del giorno, evidentemente dimenticato in qualche cassetto del comune di Gradisca.
Il dato politico è evidente: le elezioni sono alle porte e l’immigrazione sarà un tema centrale, dovranno pur dimostrare di aver fatto qualcosa per ridurre i numeri, la pressione sul territorio isontino. Il rischio?
Perdere anche Gradisca dopo Cormons, Gorizia, Monfalcone insomma, perdere l’ultimo grande comune della nostra provincia. Se poi, per farlo, si debbono lasciare in strada 60 lavoratori isontini, dovremmo farcene una ragione, dovrà comunque prevalere la RAGION DI PARTITO.
Tutto questo ovviamente preoccupa i lavoratori e fa arrabbiare chi per anni, come San Giovanni nel deserto, ha predicato la necessità di costruire un sistema di accoglienza isontino, strutturato e capillare, fa arrabbiare chi ha sostenuto che il Piano Immigrazione Regionale doveva essere più coraggioso ed incisivo, più concreto.
Ormai è tardi, perchè con i se ed i ma non si è mai fatta la storia, ma se quel piano fosse stato fatto come si doveva fare, ascoltando chi suggeriva concretezza, oggi i 60 dipendenti del CARA potrebbero essere riassorbiti gradualmente sul territorio provinciale e regionale, portando in dote la professionalità maturata come elemento indispensabile per assolvere a questo importante servizio.
Oltre al danno però sembra esserci pure la beffa, quello che succede di norma quando non si conoscono le realtà nel concreto: se lo svuotamento del centro avvenisse, come sembra avverrà gradualmente, progressivamente si ridurranno i numeri delle presenze e con i numeri si ridurrà lo stipendio dei dipendenti che dall’attuale 92.5% potrà arrivare fino al 45% circa e di conseguenza la disoccupazione che spetterà ai lavoratori dopo il licenziamento sarà il 60% di uno stipendio da fame.
Quando i fenomeni, anche se scomodi come questo, non si governano e ci si preoccupa piuttosto di costruire e di non perdere il consenso, succede che comunque qualcuno dovrà pagare il conto, ma non sarà la politica, saranno come sempre, i cittadini.
La politica dovrebbe essere la cura non la malattia.
Avete deciso di chiuderlo? Chiudetelo subito allora, perchè con il 60% di niente non si vive! I.Ce
Esistono assessorati al lavoro, ai diversi livelli territoriali. Cosa caspita fanno? Politica o politiche del lavoro?