I fatti di cronaca spesso mettono in luce episodi di consumo di droghe dandone sempre un’immagine di straordinarietà, come se fossero collocati fuori dalla vita di tutti i giorni.
Eppure, l’emarginazione sociale che emerge nel caso degli ultimi episodi in cui sono morti dei giovani in carico al Ser.d non si ritrova affatto nella vicenda dei “festini” in cui si consumava cocaina.
Articoli:
Cadavere trovato morto in centro a Gorizia
Feste a base di cocaina a Gorizia
I protagonisti provengono da due spaccati sociali diversi ma sono accomunati dall’appartenere entrambi alla società del consumo.
La situazione FVG (dati dell’osservatorio per le dipendenze 2015 (SER.D)) vede la fascia 20-29 anni come quella maggiormente rappresentata tra i nuovi ingressi al servizio (fonte ufficiale www.niod.welfare.fvg.it/fucina-strumenti).
In realtà essa rappresenta solo una minima parte della scena dei consumi, perché esiste tutto un mondo che definisco “zona grigia”, fatto di una maggioranza di persone che non arriverà mai ai servizi di presa in cura, perché di fatto non ne necessita.
E’ importante sottolineare che non necessitare di cura non significa non avere bisogno di alcun riferimento educativo e sanitario attraverso cui regolare, controllare, smettere il proprio rapporto con le sostanze psicotrope legali e no.
Questo discorso vale per la droga indigena come l’alcool e per tutti gli psicofarmaci di cui negli ultimi anni sono aumentati gli utilizzi (e in alcuni casi gli abusi), seppur legali e prescritti dagli ambulatori medici.
Prendiamo ad esempio il consumo di alcol: i 5000 morti all’anno (stimati) rappresentano un numero infinitamente piccolo se raffrontato a quello dei consumi totali, e l’alcool non può essere certo definito una sostanza “leggera”, considerati i livelli di intossicazione e la forte dipendenza fisica che può produrre.
L’alcool, tuttavia, non è al centro dell’attenzione come la sostanza killer, ma al centro dell’attenzione è la modalità di approccio alla sostanza da parte della persona che consuma, l’assegnazione di senso che si dà a tale consumo.
“Bere per dimenticare” è completamente diverso dal “bere per degustare”. La sostanza è sempre la stessa ma l’approccio al suo utilizzo determina l’individuazione di un problema di dipendenza o meno.
L’alcool, sebbene sostanza per niente leggera e che da fonte OMS causa morti ogni anno, non viene giustamente criminalizzato.
Un ipotetico proibizionismo dell’alcool non abbasserebbe i consumi ma aumenterebbe il numero di morti a causa di esso. Questo perché il contesto emarginante andrebbe a comportare per la singola persona un aumento di problemi da un punto di vista penale, e da un punto di vista sociale, in termini di etichetta deviante, una spinta verso l’isolamento.
Il mondo delle droghe ritenute illegali non prevede dinamiche diverse da quelle legali. Gli studi antropologici (cit Giorgio Samorini), evidenziano come il rapporto tra l’uomo e le sostanze psicotrope sia sempre esistito.
Non solo: il contesto e le regole sociali all’interno dei quali avviene il consumo, determinano in modo pesante l’immaginario, l’etichetta e l’assegnazione di senso al consumo stesso.
Questo avviene aldilà delle norme giuridiche. Anzi le norme giuridiche che negano un rapporto inestinguibile, producono maggiori danni del consumo stesso.
Un bilancio sulle politiche antidroga portate avanti negli ultimi decenni non può che essere negativo: le misure poste in essere sono state ancora più dannose dell’abuso indiscriminato di stupefacenti.
Nel corso dell’ultima sessione speciale delle Nazioni Unite sul consumo di droga nel 1998 erano state sollecitate misure legislative draconiane finalizzate a vietarne l’uso, la produzione, il traffico e il possesso.
Il ricorso a simili norme dirette a stroncare il mercato della droga ha avuto come conseguenza una disfatta su tutti i fronti che in Messico ha causato ben 27.213 morti, senza peraltro imprimere una svolta decisiva alla lotta antidroga.
Come se non bastasse, sono finiti in manette nel 2006 ben 155 milioni di persone trovate in possesso di droghe destinate a un uso esclusivamente personale, un eccesso di zelo che ha gravato notevolmente e inutilmente sul bilancio statale.
Nell’aprile del 2016, dopo diciotto anni, si è svolta una sessione speciale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (Ungass 2016) che avrebbe potuto segnare un cambiamento decisivo in una storia tutta da riscrivere.
Infatti, la lunga vicenda delle politiche antidroga è costellata di clamorosi errori, che da una parte hanno stroncato giovani vite senza infliggere un colpo decisivo al narcotraffico, dall’altra ne hanno addirittura consolidato ulteriormente la posizione.
Kofi Annan, ex-segretario generale dell’Onu, ha condannato in modo inappellabile le politiche antidroga che hanno mietuto molte più vittime di quante non ne abbia fatte la droga.
Molte cose sono cambiate rispetto al passato e, a dispetto di tutte le previsioni, risultati apprezzabili sono stati raggiunti percorrendo strade ritenute, solo fino a pochi anni fa, del tutto impraticabili (si veda il caso del Portogallo e della Spagna, paesi mediterranei).
In alcuni Stati degli Usa la legalizzazione della cannabis ha inferto un duro colpo ai narcos, sottraendo una cospicua fetta di profitti ai loro traffici internazionali. Inoltre la depenalizzazione della marijuana ha contribuito alla riduzione del sovraffollamento delle carceri e ha implementato gli introiti statali.
Cosa significa che il contesto è determinante
Partiamo dall’assunto che l’obbligo a un comportamento produce cambiamento solo a breve termine.
Il principio della costrizione si sposa con una visione di stato etico e totalitario. Una forma di fondamentalismo che produce una visione di stile di vita a cui tutti devono adeguarsi.
In un paese che si definisce democratico tale visione da “pensiero unico” non può essere accettata, in quanto la democrazia si basa sul principio della libertà individuale, limitata solo dall’altrui libertà.
Aldilà delle questioni etiche e di democrazia da cui i consumatori di droghe non sono esclusi, il fallimento delle politiche proibizioniste è dato dai numeri; lì dove sono state avviate inversioni di marcia, non solo i consumi non sono aumentati, ma sono diminuiti e in alcuni casi abbattuti gli effetti collaterali negativi sia sul consumatore e sia sulla comunità circostante.
Come per tutti i consumi, va analizzata la società in cui essi avvengono per descriverne le caratteristiche ed analizzarne gli aspetti specifici. La nostra società basata sul “consumismo delle materie” è strettamente collegata alla perdita di valore di tutto ciò che consumiamo.
La logica del supermarket mette il consumatore di fronte all’abbondanza e all’imbarazzo della scelta tra prodotti diversi, e lo fa diventare sempre meno agile nel criticare ciò che consuma.
A parte quando si è mossi dalla logica del risparmio (che non garantisce qualità ma che accomuna molti consumatori), sfido chiunque a convincermi che nel nostro mondo siamo stati abituati ad una reale scelta critica quando facciamo spese. Spesso si compra il prodotto più pubblicizzato o più accattivante nella presentazione, e non quello di migliore qualità.
Tornando alla droga legale come l’alcool, quanti nuovi consumatori si preoccupano della qualità e quanti notano l’aspetto friendly della bottiglia? (differenza tra degustare e consumare).
Quando si dice ai giovani che “le droghe in quanto tali fanno tutte male senza differenza”, slogan ispiratore dell’attuale legge Fini-Giovanardi, si afferma la cosa più antiscientifica che esiste.
Raccontare favole crea un gap di fiducia, di autorevolezza e credibilità. Facendo queste affermazioni si è contribuito in questi decenni all’incapacità per le nuove generazioni di distinguere tra una sostanza ed un’altra e di conoscere i rischi, legati soprattutto alle sostanze “pesanti”.
Ricordo che l’annullamento della differenziazione tra “leggero” e “pesante” nelle tabelle ministeriali incluse nella legge Fini-Giovanardi è stato stralciato dalla Corte Costituzionale in quando non corrispondente a studi scientifici approvati (e non si sa perchè non accettati solo dall’ex ministro Giovanardi).
Ciò di cui necessitiamo è passare dalla sfera del “penale” a quella del “sociale” pensando ai servizi di counseling, di prossimità, di informazione nei contesti di divertimento e di accompagnamento alla crescita dei giovani dentro il contesto della società del consumo, di cui anche le droghe fanno parte.
Anche la bulimia è prodotto della società del consumo, ha origine da un malessere che prova chi si sente incapace di stare al passo con ciò che la società richiede (immagine e idea di ricchezza), inoltre può produrre seri danni alla salute, eppure nessuno si sogna di mandare in galera un bulimico.
Abbiamo per anni seguito la strada della criminalizzazione delle sostanze, pur se i medesimi principi attivi di queste ultime si trovano in moltissimi farmaci, trascurando la necessità di educare a distinguere le differenze, di possedere quella capacità di consumo critico, indispensabile anche per i farmaci da banco (quindi legali), oggetto di utilizzi sbagliati.
Ci si è concentrati troppo sul pericolo da evitare, in un mondo in cui, seppur illegale, il mercato è diventato sempre più libero: la lotta al narcotraffico grosso è un fallimento perché ci si è concentrati a reprimere la domanda, operazione del tutto ideologica, utile solo per i politici che cercano consenso. Ma negare la domanda e il rapporto uomo/sostanze esistente da millenni è pura demagogia politica.
Ben più complesso è analizzare la complessità dei consumi prendendosi cura dei cittadini che si trovano in quella “zona grigia”. Il proibizionismo nasconde il fenomeno “sotto al tappeto”, portandolo alla luce solo in occasione di un fatto tragico, insabbiandolo poi fino al successivo.
La risposta penale ci dà l’illusione che i nostri figli siano in sicurezza; un’illusione che svanisce quando la droga tocca proprio nostro figlio, scoperchiando il dramma che inevitabilmente un fatto del genere porta con sè.
Nonostante la legge di sistema non aiuti il lavoro socio-educativo dei servizi, le realtà locali possono muovere utili e concreti passi in avanti, così come avviene già in alcune realtà italiane, ovvero pratiche che prevedono il prendersi cura dei propri cittadini, mettendo in luce la necessità di modificare l’approccio legislativo.
Basta con le ideologie pro o contro la droga, fortemente limitanti della portata del tema: ci vuole un approccio che parta dagli studi scientifici, dal mondo degli operatori sul campo e perché no, dai consumatori stessi, che aiuti a superare una visione dicotomica che fino ad oggi non ci ha portato molto lontano.
Sono necessari cambi di rotta di tipo basagliano e l’avvio di un pensiero che vede i cittadini consumatori, problematici o meno, come cittadini portatori di diritti e che possono essere coprotagonisti, attraverso i servizi, del proprio “stare meglio”.
Non per forza, non sempre, non a tutte le condizioni “stare meglio” equivale ad essere “astinenti”.
Capaldo Luciano educatore professionale
Grazie , informare sempre non nascondere