Nell’esprimere nuovamente la nostra gratitudine al Comitato di Quartiere Straccis per aver organizzato un dibattito molto interessante, e ai relatori per aver affrontato in modo estremamente competente una questione delicata, sottoponiamo alla vostra attenzione uno scritto apparso su Valigia Blu dove lo potrete leggere nella sua interezza.
Io sono l’esperto, voi il pubblico. Io studio queste cose, voi no, perciò non è possibile alcuna discussione alla pari con me, cosa che può avvenire solo con altri esperti.
Questo approccio si può considerare una versione “estremizzata” di quello che nella comunicazione della scienza viene definito Public Understanding of Science (PUS).
Il punto di svolta nello sviluppo del PUS è stata la pubblicazione, nel 1985, di un rapporto della britannica Royal Society, elaborato da un gruppo di lavoro guidato dal genetista Walter Bodmer. Il rapporto constatava il pericolo di una sempre maggiore frattura tra scienziati e pubblico.
Un rischio che si sarebbe dovuto evitare dal momento che la scienza, e le sue applicazioni, era ormai diventata da tempo un’impresa dalla quale dipendeva il benessere delle nazioni.
I sondaggi evidenziavano le scarse nozioni scientifiche della popolazione. Perciò, per i fautori del PUS, l’analfabetismo scientifico costituiva l’ostacolo principale nel percorso di avvicinamento del pubblico alla scienza.
Colmare il deficit di nozioni avrebbe contribuito anche a suscitare una maggiore stima nei confronti della scienza e ad accettare le innovazioni tecnologiche prodotte grazie alla ricerca (per questo molti definiscono il PUS anche deficit model).
Il PUS, infatti, si basa sul presupposto che il pubblico, nei confronti della scienza, sia qualcosa di sostanzialmente monolitico, estraneo al proprio stesso contesto sociale. Spesso ostile alla scienza, comunque quasi sempre disinformato.
Per questo quello del PUS non può che essere un modello di comunicazione completamente unidirezionale. La conoscenza, una volta fissata, viene trasferita dagli scienziati al pubblico, visto come un contenitore passivo di nozioni.
Il PUS è stato per molto tempo il modello concettuale di riferimento nell’elaborazione delle iniziative di divulgazione promosse da governi e istituzioni.
Con il passare degli anni, tuttavia, gli studi sulla comunicazione della scienza e sul rapporto tra scienza e società hanno dimostrato che alcuni dei presupposti su cui si basa il PUS sono semplicistici. E le previsioni dei suoi fautori si sono rivelate ottimistiche.
Ad essere messa in discussione è stata la stessa concezione della comunicazione della scienza come di un’attività di mera spiegazione di fatti ed evidenze.
I fatti, da soli, possono non bastare a convincere il pubblico della validità di una teoria o di una ricerca. L’esposizione a una maggiore dose di informazione non solo può non bastare a mutare le opinioni del pubblico, ma talvolta può, al contrario, irrigidirle.
Questo accade perché le persone non si comportano come recipienti vuoti da riempire con nozioni. Ma da soggetti che elaborano attivamente queste nozioni, sulla base anche delle proprie credenze ed esperienze personali.
I fatti vengono collocati all’interno di quelli che vengono definiti frames, cioè quadri concettuali di riferimento che condizionano la propria opinione. Oltre i fatti, insomma, esistono i valori. E questi valori non sono elementi secondari nel modo con cui le conoscenze scientifiche passano dai centri di ricerca e dai dipartimenti universitari al grande pubblico.
Per non parlare del ruolo che in questo percorso rivestono i media generalisti, dove non sempre i nuovi studi, e le loro implicazioni, vengono riportati e descritti correttamente.
Come scrive Massimiano Bucchi, studioso del rapporto tra scienza e società, c’è un sapere “laico” (proprio cioè dei non esperti), con cui il sapere scientifico deve confrontarsi: Il sapere laico non è una versione impoverita o quantitativamente inferiore del sapere scientifico, ma qualitativamente diversa.
La ‘conoscenza fattuale’ rappresenta soltanto uno degli ingredienti del sapere laico, in cui inevitabilmente si intrecciano altri elementi (giudizi di valore, fiducia nei confronti delle istituzioni scientifiche, percezione della propria capacità di utilizzare sul piano pratico la conoscenza scientifica) in un complesso non meno sofisticato di quello specialistico.
Inoltre, nota sempre Bucchi, è stato perfino rilevato che un maggiore livello di conoscenza non necessariamente porta il pubblico a condividere la stessa posizione della comunità scientifica, per esempio sulle biotecnologie.
La disponibilità di maggiori informazioni può spingere a nutrire posizioni ancora più “scettiche” e diffidenti nei confronti delle affermazioni degli scienziati.
I limiti del PUS hanno convinto non solo gli studiosi di comunicazione della scienza, ma anche gli stessi scienziati, ad abbandonare alcuni dei presupposti del modello precedente.
Il PUS si è quindi evoluto nel PEST (Public Engagement in Science and Technology). Da un approccio “dall’alto verso il basso” si è passati a un modello di comunicazione che, come suggerisce l’espressione, pone l’accento sul coinvolgimento del pubblico, non più visto come recipiente passivo di nozioni ma come soggetto attivo nel processo di trasferimento della conoscenza.
Secondo questo nuovo modello la comunità scientifica non deve limitarsi a trasferire conoscenze con un approccio “paternalistico”, ma deve discutere in modo trasparente e aperto, e alla pari, con il pubblico. Il pubblico diventa così un attore del processo decisionale, perché le implicazioni di numerosi campi della ricerca scientifica, dalla medicina all’ambiente, riguardano tutta la società, non solo gli esperti.
La scienza diventa quindi un’impresa che non può non coinvolgere l’intera comunità perché richiede decisioni collettive, anche politiche (si pensi a referendum come quelli sull’energia nucleare o la fecondazione assistita).
Sono state prodotte diverse esperienze di PEST. Alcune prevedono, per esempio, la partecipazione di comitati, associazioni di pazienti, giurie di cittadini o l’organizzazione di consensus conferences dove persone comuni interrogano gli scienziati su un tema e le conclusioni vengono riportate pubblicamente in un rapporto. Il coinvolgimento del pubblico, in alcuni casi, può addirittura spingersi a prendere la forma di una collaborazione tra scienziati e non-scienziati nella produzione di nuova conoscenza.
Alla base di questa concezione partecipativa del rapporto tra scienza e società c’è la convinzione, come scrive il sociologo della scienza Andrea Cerroni, che:
Nella società della conoscenza, tanto ai non scienziati è richiesto di formarsi e informarsi su questioni scientifiche sempre più presenti nella vita quotidiana, quanto agli scienziati è richiesto di inserirsi nei processi di formazione del consenso nell’opinione pubblica.
Il modello del PUS ha avuto il merito storico di indicare come vitale la questione della comunicazione pubblica della scienza e della sua importanza per tutta la società, sottolineando anche il rischio di un allontanamento tra scienziati e cittadini. E il superamento del PUS non significa, peraltro, che si debba abbracciare una forma di relativismo radicale, per cui non esistono i fatti e tutte le opinioni si equivalgono.
Esiste ancora un deficit di conoscenze scientifiche in una larga fetta della società, che è necessario colmare.
Nella “società della conoscenza” esiste un nuovo diritto: quello alla cittadinanza scientifica. «Devono compartecipare alle scelte tutti coloro che hanno una posta in gioco (stakeholders). E quindi, nel caso della politica della ricerca complessiva, tutti i cittadini».
“Comunicare tutto a tutti” è indispensabile per garantire questo diritto. La scienza non è solo un insieme di nozioni ma anche un complesso di istituzioni e una comunità che si apre, e si deve sempre più aprire, verso l’esterno.
Questo non è altro che l’estensione verso il resto della società, e la logica e storica conseguenza, della visione che ha prodotto la nascita, con la Rivoluzione scientifica, delle accademie, dove veniva promosso e favorito il libero dibattito tra i cultori delle scienze.
È quindi evidente che una corretta comunicazione della scienza non può che essere lontana dalla visione della persona comune come di un soggetto che non può discutere “alla pari” con uno scienziato.
Il fisico Richard Feynman diceva, addirittura, che «scienza è credere nell’ignoranza degli esperti». Ora, possiamo anche non accogliere questo apparente paradosso, e limitarci a evitare di negare il diritto di parola nei confronti di un esperto.
Altrimenti il rischio è che la distanza tra «lo dice la scienza» e «lo dico io» si accorci fino ad annullarsi.
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