“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”: questo recita l’articolo 27 della Costituzione Italiana, partiamo da qui.
Le persone che vengono private della propria libertà al fine di scontare una pena per un reato commesso, e giudicato come tale, vengono detenute per un periodo più o meno lungo all’interno del carcere: é questo il metodo sanzionatorio scelto dal nostro ordinamento, la privazione della libertà, cui vanno affiancati programmi rieducativi incentrati sulla persona, al fine di reinserirla al meglio nella realtà sociale e lavorativa fuori dalle mura carcerarie, così da ridurne (o azzerarne!) la recidiva.
É evidente che, se non si interviene in tal modo, chi ha commesso un reato e viene privato non solo della propria libertà ma anche di una serie di relazioni e stimoli per accrescere le proprie competenze lavorative, ma soprattutto personali e sociali, una volta fuori dal carcere si troverà nella medesima situazione che aveva lasciato, aggravata dal fatto di essere stato detenuto. É proprio questo che nel corso delle conferenze del 29 e 30 novembre scorso (“A scuola di libertà”- 5^ giornata nazionale di informazione e sensibilizzazione) i testimoni diretti di queste esperienze hanno raccontato, riportando al pubblico soprattutto le conseguenze dell’etichettamento della loro passata detenzione.
Uscire dal carcere e sentirsi unicamente un “ex-detenuto” non fa altro che riportare alla mente questa esperienza: purtroppo ciò non vale solo per la persona in sé ma soprattutto per la società che si presta a reintegrarla. Perciò é essenziale che nel periodo detentivo si intervenga sulla persona, quella specifica persona che si ha davanti, mirando alle peculiarità, relazioni e storia che rendono diversi ognuno di noi e che quindi definiscono quello che dovrebbe essere un trattamento individualizzato sul singolo.
Purtroppo, non é ciò che avviene nelle nostre carceri: in primis, ed in riferimento anche al caso specifico di via Barzellini, a causa delle strutture inadeguate ad una rieducazione. A tal fine il Garante dei detenuti, Don Alberto De Nadai, si sta battendo da molto tempo per chiedere di riutilizzare edifici dismessi per ospitare i parenti dei detenuti quando vengono a far loro visita e per creare un “luogo neutro” per permettere un degno colloquio con loro, soprattutto per i figli di queste persone. Nelle stesse strutture carcerarie purtroppo l’ambiente risulta ancora malsano, privo di spazi adeguati per i detenuti e per iniziative di socializzazione e rieducazione; mancano inoltre sia guardie carcerarie (che ora si trovano a coprire turni estenuanti) sia operatori e psicologi specializzati, e ciò ha reso indispensabile il contributo del volontariato che, come meglio ha potuto (e a volte anche di più) ha supplito alla carenza delle istituzioni preposte.
A Gorizia ci riferiamo emblematicamente a Don Alberto De Nadai (senza dimenticare chi lavora insieme a lui), che ha creato quello che definisce un “corridoio umanitario” all’interno di casa sua, per poter accogliere coloro che, usciti dal carcere (specialmente perché sottoposti a misure alternative alla detenzione) non trovavano né un domicilio, né una persona di riferimento, né un percorso di reinserimento pronti ad accoglierli, in quel limbo che é il passaggio tra carcere e società. É di loro, e con loro, che Don Alberto (ma tutti a Gorizia ci riferiamo a lui con “IL Don”) ha voluto raccontare la propria esperienza di Garante e volontario, che troppe volte é stata estenuante – perché lui stesso si é trovato isolato ed ignorato dalle istituzioni, al pari delle persone che ospita o aiuta – ma soprattutto in giornate come quella di ieri, davanti ad un Teatro Verdi pieno di studenti, gli restituiscono la forza e l’impegno che dona al prossimo ogni giorno: lo fa non solo perché é IL Don, appunto, ma perché sicuramente ha compreso che le definizioni, le etichette, che diamo alle persone rischiano di agire come una profezia auto-avverante.
Se io mi riferisco a te sempre come EX detenuto (in questo caso, ma vale anche per tossicodipendente ad esempio), tu cosa penserai, cosa farai di te? Su che basi ri-definirai la tua identità e quindi la tua vita? E, di riflesso, chi vive intorno a te, come ti vedrà?
Iniziamo quindi a vederci tutti (ma proprio tutti) come persone, che come tali commettono azioni, reati, quello che volete; ma non é questo che ci deve definire. LD.
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