Il noto politologo e saggista Angelo Panebianco solleva l’interrogativo, secondo lui puramente retorico, se la convivenza civile ci rimetterebbe nel caso in cui la nostra Repubblica, anziché essere fondata sul lavoro, fosse fondata sulla libertà.
Come tutti sappiamo, è l’articolo 1 della Costituzione a prevedere che l’Italia sia una repubblica democratica fondata sul lavoro ma, secondo Panebianco, è arrivato il momento di intervenire proprio sui primi articoli della Costituzione, quelli che contengono i principi fondamentali sui quali si fonda la nostra repubblica e che, a suo dire, sono quelli che impediscono una vera revisione dei restanti articoli.
Chiaramente, questa proposta è espressione di un orientamento politico di stampo liberista mentre quello che ha ispirato la Costituzione vigente è di stampo socialista.
Come illustrato dall’on. Fanfani, al quale si deve l’attuale formulazione dell’articolo, dire che la repubblica si fonda sul lavoro esclude che possa “fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui” ma afferma, al contrario, che “si fonda sul dovere, che è anche diritto ad un tempo per ogni uomo, di trovare nel suo sforzo libero la sua capacità di essere e di contribuire al bene della comunità nazionale…”.
E, infatti, l’articolo 1 si lega strettamente con il successivo articolo 4, che stabilisce il dovere per ogni cittadino di svolgere un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.
Il lavoro, dunque, è non solo un diritto ma anche un dovere in quanto ogni cittadino è tenuto a portare il suo contributo, morale o materiale, al progresso della società.
Ma c’è di più. L’articolo 3 pone in capo alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscano “il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Il passaggio successivo di un’ipotetica revisione costituzionale sarebbe quello di considerare il diritto di proprietà fra i diritti fondamentali su cui poggia la libertà, quindi come un diritto assoluto ed incomprimibile.
Il vigente articolo 42 prevede, invece, che la legge determini anche i limiti della proprietà privata allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.
Infine, l’imposizione fiscale con l’abbandono del principio della progressività e l’introduzione di una tassazione fondata su un’aliquota uguale per tutti, la cosiddetta flat tax, di cui ho parlato in un post precedente.
Tutto questo dalla modifica di una sola parola!
Da una parte lo Stato visto come strumento di emancipazione sociale e promotore di uguali diritti per tutti, dall’altra lo Stato come garante delle libertà individuali e mero spettatore del loro esercizio.
In assoluta opposizione alla proposta avanzata, sono convinta che sarebbe quanto mai opportuno dare finalmente attuazione al dettato costituzionale nella sua formulazione attuale, anche e soprattutto al fine di eliminare le disuguaglianze sociali e di consentire una redistribuzione della ricchezza prodotta.
E non si creda che quanto appena espresso derivi da una visione utopistica della società.
Al contrario, come avviene molto più frequentemente di quanto non si pensi, in questo caso le leggi economiche sono in sintonia perfetta con quelle dell’equità e della solidarietà. La concentrazione della ricchezza nelle mani di un esiguo numero di persone è non solo moralmente inaccettabile ma anche economicamente improduttiva. In un sistema economico come quello in cui viviamo è necessario che i consumi siano diffusi tra il maggior numero possibile di utenti e non concentrati nelle mani di pochi.
Soltanto favorendo una maggiore equità sociale sarà possibile ridurre quel senso di profondo risentimento che, come evidenziato nel rapporto annuale del CENSIS, sta covando nel tessuto del nostro Paese e che costituisce terreno fertile per il proliferare di formazioni politiche sempre più estremiste e violente. SoSa
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