Il 13 maggio di 40 anni fa veniva approvata la legge 180 o legge Basaglia che chiudeva i manicomi.
Nel decennio precedente c’era stato un enorme lavoro, teorico e pratico, che aveva messo in luce la condizione dei malati di mente negli ospedali psichiatrici: persone abbandonate e senza diritti, chiuse per anni in luoghi trascurati, senza prospettive di reinserimento sociale.
Nel suo lavoro Basaglia con la moglie Franca e la sua equipe avevano parlato della malattia mentale anche come frutto delle storture sociali, delle gerarchie, dell’oppressione economica e culturale, dell’esclusione dei soggetti più deboli, della mancanza di ascolto di chi aveva dei problemi esistenziali.
Dopo Basaglia, che ai “matti” aveva ridato soggettività e dignità, la malattia mentale non era più solamente qualcosa di cui il singolo e la famiglia dovevano vergognarsi e nascondere, ma diventava un’interrogazione radicale al pensiero dominante e ai suoi luoghi comuni.
Basaglia aprì alla presa di parola dei soggetti un mondo intero: donne, studenti, operai, militari e poliziotti, magistrati e insegnanti cominciarono a mettere in discussione le vecchie gerarchie, il vecchio ordine sociale che prescriveva solo l’assenso dei subalterni al sistema di potere.
Iniziava un decennio importante per l’acquisizione dei diritti. Oggi però quell’insegnamento e quelle pratiche non sono state portate avanti con la necessaria determinazione in tutto il paese. Il disagio mentale, tranne lodevoli eccezioni, continua ad essere trattato quasi esclusivamente con gli psicofarmaci: nel 2016 sono state vendute 34 milioni di confezioni di antidepressivi per una spesa complessiva di 338 milioni di euro e 5 milioni di confezioni di antipsicotici per una spesa di 68 milioni di euro.
La malattia mentale non interroga più le storture sociali, la mancanza di prospettive per il futuro e le disuguaglianze, ma diventa un grande business per l’industria farmaceutica. Gorizia è stata la città da cui la riforma di Basaglia è partita, ma la città stenta a ricordare questo pezzo importante della sua storia, eppure proprio in città il disagio si sta estendendo nel silenzio generale, un disagio che investe anche i richiedenti asilo che, per superare lo stress dell’emigrazione e della non accoglienza, sono costretti a ricorrere alle benzodiazepine.
Allora se si vuole che Gorizia diventi città della storia, perchè non valorizzare quell’esperienza, perchè non ripartire da quelle domande, da quelle proposte per alleviare il disagio? Una politica culturale che esca dal provincialismo e si apra a riflessioni più mature, valorizzando il passato di cui ci sono tanti documenti potrebbe contemporaneamente diventare un momento di attrazione, di dialogo e di riflessione che le rievocazioni storiche, con tutto il rispetto per chi le fa, non sono in grado di suscitare. adg
Sì, in questi giorni l’Italia ricorda ed onora Basaglia, mentre a Gorizia, dove tutto ebbe inizio, l’anniversario passa praticamente inosservato e il sindaco e l’assessore alla cultura affermano di voler medievalizzare il Borgo Castello e si premurano di essere vicini allo youtuber goriziano Tiger Dek. Per non parlare dei criteri che hanno adottato per valutare la stagione del Teatro Verdi e delle iperboli loro e del Piccolo su spettacoli che sono stati spesso miseri e comunque intrattenimento, non teatro. Ben altro spessore hanno le serate che il centro di San Rocco dedica all’anniversario della Riforma protestante. Per dirne una.