Bihač è una città dove abitano circa 60mila persone, capoluogo del cantone bosniaco “dell’Una e della Sana”, i due bellissimi fiumi che caratterizzano il paesaggio dell’intera regione.
Il centro storico, diviso in due dal fiume che qua assume le dimensioni di un romantico lago, risente della dominazione ottomana, come evidente dai numerosi edifici cultuali che si possono visitare.
La collocazione geografica consente a questa zona di essere un confine importante, non soltanto politico, ma anche culturale e religioso.
Da alcuni mesi questo vero e proprio cuneo del mondo islamico orientale in quello cristiano occidentale, è diventato il più ovvio approdo di coloro che percorrono la nuova rotta balcanica.
Dal mese di febbraio a oggi nel cantone sono arrivati più di 6000 profughi, un migliaio sono nel campo di Velika Kladuša, dove l’oste di un piccolo ristorante fa vedere con legittimo orgoglio un piccolo quaderno nel quale sono annotati tutti i 70mila (sì, 70mila!!!) pasti che è riuscito a offrire, grazie alla sua generosità e a quella della gente, pronta a sacrificare quel poco che possiede per alleviare il disagio dei profughi.
Gli altri 5000 sono a Bihač, circa 600 in una caserma in rovina nella periferia della città, tutti gli altri in case fatiscenti abbandonate o sotto gli alberi, nei numerosi parchi sulla riva del fiume Una. Sono pakistani (circa il 30%), afghani, iraniani, siriani, iracheni, palestinesi e ultimamente anche molti di essi sono maghrebini.
La loro presenza in città è molto evidente. Molti di loro approfittano del fiume per lavarsi e per superare le ore più calde della giornata, ma tutti hanno un unico obiettivo, quello di riuscire a valicare la frontiera, attraversare la Croazia e chiedere asilo in Slovenia o in Italia.
Per loro l’Europa è una Terra promessa e le notizie sul razzismo crescente non sembrano affatto turbarli. Partono in gruppo, tentano la via dei boschi. La maggior parte viene ripresa subito, altri arrivano a Lubiana, da dove ordinariamente vengono gentilmente caricati sugli autobus e ricondotti in Croazia. E lì, quelli di Bihač come quelli di Kladuša, subiscono lo stesso incredibile trattamento: pestaggi a sangue, bastonate, distruzione dei telefonini per impedire l’uso del segnale gsm, furti. Il tutto, forse, per legittimare la “capacità” della Croazia di fermare i profughi in caso di accoglienza della domanda di entrare nell’area Schengen.
Quelli che si vedono partire rapidi e silenziosi il giorno prima, li si riconosce tristi, mentre rientrano nei loro poveri alloggi, zoppicanti e tristi, un paio di giorni dopo.
Tutti i bosniaci ripetono lo stesso avvincente ritornello, “siamo stati profughi noi, ora tocca a noi aiutare coloro che fuggono dalle guerre e dalle persecuzioni”. E’ una lezione straordinaria, che dovrebbe far sussultare l’Unione Europea. E che dovrebbe anche preoccuparla, dal momento che questa situazione non può durare.
Anche a Bihač c’è chi comincia a protestare, invitando i cittadini in piazza. In verità sono pochissimi quelli che rispondono all’appello, certamente si vedono molti più giornalisti di testate internazionali che gente del posto. Le argomentazioni non sono certo “prima i Bosniaci, poi gli altri”.
Sono piuttosto un accorato appello alle istituzioni, gravemente in crisi, di una federazione bosniaca che di fatto non esiste e delle entità croato cattolica, serbo ortodossa e bosniaco musulmana di fatto completamente staccate l’una dall’altra.
La disoccupazione è a livelli incontrollabili, oltre centomila profughi dalle guerre degli anni ’90 attendono di essere reintegrati nella società, la maggior parte di essi porta le ferite fisiche e psichiche di quei terribili conflitti. Tutti comunque ammettono che il problema non è dettato dall’esigenza di sicurezza – “con la presenza di migliaia di rifugiati, in sei mesi non si è mai verificato alcun episodio critico, neppure un piccolo furto in un mercato all’aperto” – ma dalla necessità che siano tutelati i diritti di tutti.
I racconti degli aspiranti richiedenti asilo si rincorrono. La fuga dal Paese d’origine, i trafficanti di persone che spillano migliaia di euro per ogni attraversamento di confine, il lavoro duro e quasi non pagato in Grecia, Serbia e Bulgaria, la via dell’Europa, i continui respingimenti alla frontiera – qualcuno ci ha provato fino a venti volte!, la disperazione crescente nei volti e nel cuore, la fame e la sensazione di abbandono e impotenza.
In realtà c’è anche chi si interessa della situazione. Le Nazioni Unite hanno aperto d’urgenza un ufficio a Bihač, con funzionari molto competenti e intelligenti. Hanno subito fatto proprio un grande albergo, a Sedra, una decina di chilometri a nord del capoluogo. Uno dei villaggi turistici riservato alle élite della Jugoslavija ai tempi del non allineamento, con annessa spiaggia romantica sul fiume, è diventato così il luogo di rifugio per le famiglie con i bambini e per le persone più vulnerabili, tutti raccolti con attenta verifica dai campi e dalle case abbandonate della zona. Sono per ora 120, potranno arrivare fino a 400, assistiti dall’IOM, l’agenzia dell’Unione Europea per le Migrazioni.
Sono dunque almeno tre le modalità di sostegno di una situazione che è comunque ai limiti dell’esplosione, tenendo conto del fatto che ogni giorno continuano ad arrivare nuovi gruppi, alimentati dalla speranza in un futuro migliore.
Gran parte della sopravvivenza di queste persone si deve agli abitanti della zona, un volontariato spontaneo, totalmente gratuito e non organizzato che suscita ammirazione e stupore. Ci sono poi le organizzazioni autonome, finanziate da agenzie non governative come la Croce Rossa (o le Croci Rosse perché ce ne sono di diversi tipi), la Caritas, la Mezzaluna, le Comunità Emmaus e via dicendo. E il tutto si svolge sotto la soprintendenza – a volte ben accetta a volte criticata – dell’UNHCR e dello IOM, che qui rappresentano le Nazioni Unite e l’Unione Europea.
Che cosa sarà di tutta questa gente? Che fine faranno le speranze di coloro che si lasciano bastonare venti volte pur di non demordere dalla volontà di raggiungere il fortino Europa? Un testimone molto autorevole di ciò che sta avvenendo constata che i paesi europei hanno un bisogno estremo della loro presenza e afferma – neppure troppo leggermente – che la polizia croata, invece di distribuire legnate, dovrebbe consegnare a chi passa le brochure riguardanti il turismo perché se le politiche fossero “normali”, quelli che ora sembrano dei poveri senza alcuna chance di sistemazione, potrebbero ritornare tra tre anni indietro con il cipiglio e gli euro dei visitatori francesi, tedeschi o italiani.
Probabilmente ha ragione, una buona organizzazione potrebbe consentire a tutti di avere un lavoro e una casa, di ricongiungere le famiglie, di controllare, se non estirpare, i criminali traffici delle mafie che sia arricchiscono sulla pelle dei poveri.
Probabilmente ha ragione, ma non sembra questa la strada intrapresa dalla maggior parte dei Paesi europei, in particolare dalla Croazia, dall’Ungheria, dall’Austria e ora anche dall’Italia.
La scelta della non-accoglienza, insieme all’insensato rifiuto dell’accoglienza diffusa, porterà molte tristi conseguenze ai poveri che bussano alla porta dell’Unione, innalzerà il livello del conflitto sociale e favorirà anche il diffondersi del temuto islamismo radicale. Non è un caso che sempre più donne in Bosnia portino il burqa, che nei paesi sui monti si insedino associazioni di combattenti e che i Paesi arabi inizino a sovvenzionare l’assistenza, in cambio di nuove appartenenze non più così simpatetiche e pacifiche come quelle dimostrate finora da tutti coloro che hanno intrapreso la strada dei Balcani. AB
Foto: https://www.google.it/amp/s/watchtheborders.wordpress.com/2018/06/09/bosnia-and-the-new-balkan-route-bihac/amp/?source=images
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