Centinaia di persone, provenienti da Paesi che vanno dal Pakistan al Marocco, sono bloccate a Velika Kladuša, nella Bosnia nord occidentale.
Le prime moschee che si incontrano scendendo dalla Slovenia e dalla Croazia ricordano che fino alla conquista da parte degli Asburgo, questo era il paese più a Nord dell’antico Impero Ottomano, oggi luogo dove si trova il confine con la Croazia.
Vivono in tende fatiscenti, nel caldo insopportabile di giorno e nel freddo di notte. La pioggia trasforma l’ambiente in un putrido acquitrino dove cercano di sopravvivere, insieme a tanti giovani, anche persone più mature, donne e parecchi bambini. Il cibo è procurato da organizzazioni di volontariato, facenti capo all’iniziativa locale e internazionale: ogni giorno arrivano – e non sono mai sufficienti per tutti i presenti – dei vassoi di plastica con qualche mestolo di minestra, troppo poco per chi ha bisogno di energie per intraprendere lunghi e faticosi percorsi o per resistere agli inconvenienti del campo.
C’è anche un ristoratore, a circa un chilometro di distanza, che offre gratuitamente il proprio servizio grazie ai contributi in denaro e in materie prime portati dalla gente del luogo per sopperire alle carenze dell’intervento pubblico.
Il suo locale è un importante centro di riferimento per i rifugiati di Velika Kladuša che possono ogni tanto approfittare della generosità e della creatività del personaggio per assaggiare anche i soliti kebab, burek e qualche bevanda analcoolica. Mentre il caldo d’agosto si fa pesante, le persone cercano refrigerio all’ombra del negozio e sorridono accoglienti ai passanti.
Raccontano volentieri le loro storie e ogni narrazione è un’avventura. Chi è in viaggio da anni, avendo cercato lavoro in Turchia e in Grecia, prima di essere espulso e di mettersi di nuovo in cammino. C’è chi ha percorso migliaia di chilometri a piedi e chi ha provato l’umiliazione di decine di respingimenti.
Le storie sono quelle di tanti, molte volte ascoltate anche al di qua dei confini italici, sulle rive dei fiumi e nel tunnel di Gorizia. Gorizia poi… E’ un nome che fa subito scattare l’attenzione, la sede della commissione che deve decidere le sorti dei nuovi arrivati, un luogo per tutti sognato e sperato, una vera porta per entrare nella vagheggiata Italia. Qualcuno ha nei centri di accoglienza della provincia di Gorizia un parente, un fratello, un nipote che evidentemente, al telefono, ha raccontato di situazioni di meravigliosa accoglienza per non spaventare o scoraggiare chi è ancora nel mezzo del difficile percorso.
Ma i rifugiati di Velika Kladuša sono anche molto diversi dagli altri. Ufficialmente “non esistono”, perché sono sulla rotta balcanica quando essa viene ritenuta ormai interrotta dagli accordi con il presidente turco Erdogan. Sono stati fermati da alcuni mesi a un passo dall’agognata Unione Europea, dalla frontiera con la Croazia, a meno di 100 km dalla Slovenia e a circa 250 dall’Italia.
Mentre il campo si riempie quotidianamente di più e da alcuni mesi il numero degli ospiti cresce a vista d’occhio, ogni sera qualche gruppo di profughi tenta la strada dei boschi. Camminano in ordine, due a due, con macilenti zaini sulle spalle, velocissimi. Giungono nei pressi della frontiera e si disperdono nella boscaglia, per poter passare oltre. Sono accompagnati di solito dalle indicazioni dei referenti della mafia internazionale che chiedono fino a 2500 euro per poter raggiungere la cosiddetta area Schengen. La maggior parte non riesce nell’impresa, viene semplicemente presa dalle guardie che pattugliano tutta la zona e riportata in Bosnia. Alcuni ce la fanno e riescono perfino a raggiungere Lubiana, dove funzionari solerti negano loro l’asilo e li respingono, prima in Croazia e poi da lì, nuovo rigetto in Bosnia.
E così il campo continua ad alimentarsi di persone, molte che arrivano nuove dal sud, lungo la ripresa e modificata via balcanica, altre che rientrano costrette dal nord.
Il racconto del ritorno in Bosnia è allucinante, al punto da far venire i brividi, pensando che la Croazia fa parte dell’Unione Europea e che i metodi usati dalle sue guardie di frontiera sono – almeno secondo l’unanime narrazione di tutti coloro che ci hanno provato – a dir poco violenti. Molti rifugiati fanno vedere e chiedono di fotografare le loro non ancora rimarginate ferite, altri parlano dei telefoni cellulari sistematicamente requisiti o distrutti per evitare l’utilizzo della traccia gps, altri ancora raccontano di essere stati derubati di tutto. I volontari nel campo – provenienti da diverse realtà non governative europee – confermano tutti i racconti. I migranti, prima di essere restituiti ai campi profughi vicini al confine, vengono caricati su furgoni chiusi e poi bastonati, a volte ridotti in fin di vita, da personaggi misteriosi, con il volto coperto, ai quali le persone vengono consegnate dalla polizia di frontiera.
Non si capisce bene il senso di questa inutile violenza e se essa corrisponda a specifici ordini da parte dei responsabili politici della Croazia o all’interesse di altri Paesi europei preoccupati di stroncare sul nascere la nuova rotta. E così, molti dei poveri giovani visti la sera prima incamminarsi quasi correndo verso il confine, li si rivede percorrere la strada all’inverso il giorno dopo, lenti, con i volti tristi e spesso con il passo malfermo di chi ha ricevuto troppe percosse.
Insomma, quelli che incontriamo a Gorizia sono coloro che sono riusciti ad attraversare l’inferno e sono usciti – almeno per ora, ma la contingenza politica può trasformare tutto il Friuli Venezia Giulia in una nuova Velika Kladuša – a riveder le stelle. Quelli fermi in Bosnia non hanno la minima idea del destino che li attende, se non la speranza di rimettersi ancora una volta in fila indiana, insieme agli altri incolonnati e riuscire una volta o l’altra nella pericolosa impresa di attraversare il confine.
Se le centinaia di persone ferme a Velika Kladuša sono ancora in vita, lo devono in parte alla generosità degli abitanti della cittadina che non sembrano per nulla infastiditi di tale scomoda presenza. Anzi, prevale la compassione e il desiderio di poter aiutare, nonostante il fatto che da queste parti disoccupazione e povertà endemica la facciano da padrone. Molti sono gli abitanti del paese che vengono ogni giorno al campo per portare conforto, qualche cosa da mangiare e soprattutto l’espressione di una solidarietà non formale. I bambini del luogo giocano con i bambini del campo, in una parvenza di normalità che sembra svanire la sera, quando due soli lampioni alimentati da un vecchio generatore illuminano in modo insufficiente e un po’ sinistro l’ambiente. Ah sì, quanti abitanti vivono nel centro di Velika Kladuša, comune che ha un territorio molto vasto? Circa 5000. Sarebbe come se in una Gorizia arrivassero all’improvviso non due o trecento, ma 3500 profughi. O in tutta la Regione Friuli Venezia Giulia 120mila.
Mentre la cattolicissima Croazia respinge nel silenzio del resto d’Europa con metodi violenti chi cerca di varcare i confini della speranza, il principio musulmano dell’accoglienza dello straniero viene realizzato alla lettera: il canto malinconico del muezzin suscita evidentemente atteggiamenti più coerenti del suono allegro delle campane! AB
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