Sono circa trecento i profughi attualmente ospitati nella tendopoli di Velika Kladuša, altrettanti occupano case fatiscenti abbandonate dopo la guerra dai proprietari trasferiti all’estero. Le condizioni di vita sono veramente impressionanti. Non c’è più la luce elettrica, il fango penetra ovunque e tutti attendono con timore la stagione dei rigori invernali. Un ristoratore del luogo ha rinunciato alla propria attività per mettersi totalmente a disposizione dei richiedenti asilo, da febbraio a oggi ha confezionato oltre centomila pasti, con l’aiuto del volontariato del territorio.
Ora è un po’ in difficoltà, perché le organizzazioni internazionali sembrano puntare da qualche tempo sulla Croce Rossa, che porta al campo un minimo di colazione e due frugali pasti quotidiani. Sta anche allestendo in una grande struttura privata un alloggio di emergenza che dovrebbe accogliere fino a 400 persone. Naturalmente, come ovunque, c’è qualche tensione tra il volontariato spontaneo che a prezzo di grandi sacrifici offre un servizio di gran lunga più adeguato e gli organismi ufficiali di Unione Europea (IOM) e dell’ONU (UNCHR) che sostengono con cospicui interventi finanziari organizzazioni più strutturate ma anche più consone agli orientamenti politici continentali e mondiali.
Il campo, formato da tende di plastica raggruppate in una landa desolata, è molto sporco e i bambini – alcune famiglie sono da parecchio tempo in queste condizioni – giocano fra cumuli di rifiuti e bande di cagnolini affamati. Sembra che i maltrattamenti da parte delle milizie croate siano cessati, grazie all’intervento delle autorità europee sensibilizzate dai principali media, anche se più di qualcuno ha voluto mostrare i segni delle recenti percosse ricevute. In compenso si sono moltiplicati gli sforzi di controllo sul confine, rendendo di fatto quasi impossibile ogni passaggio. I gruppi che in estate tentavano l’avventura dell’ingresso in Croazia e Slovenia non ci sono più, qualche manipolo di coraggiosi tenta ancora la fortuna, quasi sempre non ottenendo alcun risultato.
A Bihać i profughi sono migliaia e li si incontra in tutta la periferia, soprattutto nelle strade adiacenti lo stadio, vicino al quale c’è il grande edificio, semidistrutto, nel quale vivono attualmente circa 800 persone. La sera è presidiato dalle forze di sicurezza che cercano di evitare incidenti tra l’esterno e l’interno del sito. Attorno all’edificio c’è un bosco, un tempo senz’altro gioiello paesaggistico, oggi campeggio di fortuna per altre centinaia di poveri che – alla luce dei rudimentali falò, cercano di scaldarsi dal freddo ormai incipiente. In alcune tende affondate nel pantano, vivono intere famiglie.
Una ragazzina sui dieci anni controlla l’accesso e invita a incontrare i suoi familiari. Sono padre madre e quattro figli, tutti dentro una tendina di plastica. Quella che parla è la seconda, la prima ha quattordici anni, gli altri due sono più piccoli. Per andare dall’Afghanistan alla Serbia hanno percorso strade impervie e camminato per giorni. Sono stati a Belgrado per due anni, dove i bambini, andando a scuola, hanno imparato a leggere e scrivere e ora possono essere autentici “capifamiglia” sotto lo sguardo orgoglioso ma anche un po’ umiliato dei genitori.
Il centro di Sedran (UNCHR – IOM) per famiglie è ormai pieno e loro sono abbandonati in questo bosco, senza alcuna prospettiva di futuro. Hanno venduto tutto ciò che avevano e i vari trafficanti si sono impossessati via via delle speranze e del 24mila euro con i quali erano partiti. C’è il tempo per scambiare quattro parole con qualche altro profugo, ce ne sono tanti che vengono dal Pakistan e dall’Afghanistan, ma anche dall’Iraq, dall’Iran, dalla Siria e dalla Palestina. Alcuni parlano di denutrizione, di giornate senza poter mangiare nulla, altri hanno qualche soldo racimolato chissà come e affollano i market, anche per scaldarsi un po’, altri ancora sostengono l’esistenza di un minimo di supporto da parte delle organizzazioni finanziate a livello internazionale.
Questa è domenica di voto in Bosnia e l’argomento profughi è tabù, chi esprime sentimenti di umanità è destinato a una sicura sconfitta. Ciò non toglie che il Paese sia allo stremo e che non si possa certo pensare a una soluzione dei problemi basata soltanto su un encomiabile volontariato. La sensazione è quella di migliaia di persone abbandonate al proprio destino che si preparano ad affrontare un difficile inverno. Ed è quella che la chiusura delle porte delle Nazioni europee siano il prodromo di un’ennesima catastrofe, stavolta nel cuore dei Balcani, della quale si parla e si parlerà molto poco. In chi c’è stato restano un dolore e una rabbia per il momento impotenti di fronte agli occhi intelligenti e alla parola fluente di Satayesh che ancora spera nel miracolo di un treno che porti lei, i genitori e i fratellini lontano dai terribili ricordi della guerra e li depositi dolcemente nella Terra Promessa, l’Italia da tanto tempo amata, desiderata e sognata… AB
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