La disgrazia accaduta giovedì scorso non può non farmi riflettere sulle condizioni di solitudine e di abbandono in cui ciascuno di noi può venirsi a trovare se colpito da disagio psico-sociale.
Da quanto si apprende dalla stampa (Il Piccolo del 21 e del 22 giugno) il sig. Facchettin era una persona con fragilità psichica, lo si deduce dal fatto che fosse in carico ai servizi per la salute mentale, viveva da solo e aveva pochi contatti con il mondo. Dalle confidenze che la sfortunata vicina aveva fatto ai propri familiari risulta che la stessa si era resa conto delle gravi difficoltà attraversate dal sig. Facchettin, e aveva cercato di convincerlo a farsi assistere, ma senza risultato.
Possibile che una persona con una dichiarata fragilità venga lasciata sola?
L’episodio conferma una serie di criticità sia interne ai servizi (sociali e socio-sanitari) che di contesto.
Da alcuni anni i nostri servizi per la salute mentale hanno subito un radicale cambiamento all’insegna del principio in base al quale le risorse vanno spostate dai luoghi di cura ai luoghi di vita delle persone. Pertanto, aboliti centro diurno e servizio di diagnosi e cura, il Centro di Salute Mentale è rimasto come unico punto di riferimento stabile per gran parte delle persone in carico al servizio. Riferimento però piuttosto debole per la presenza di personale in turnazione, con compiti diversificati, fra cui quello di uscire per andare incontro alle richieste provenienti dal territorio.
Per contro sul territorio il numero di operatori del CSM chiamati a fronteggiare le più svariate tipologie di richieste si contano sulle dita di una mano, mentre gli altri interventi territoriali rientrano in progettualità specifiche, che raggiungono una minima parte dell’utenza e sono per di più a tempo determinato (la limitazione temporale è insita nel concetto stesso di progettualità). E allora la domanda aperta è: le risorse sono veramente distribuite secondo le necessità individuali di ciascuno, oppure sono disperse in tanti piccoli e precari progetti, lasciando sguarniti quelli che dovrebbero essere i punti di riferimento sicuri e stabili quali potrebbero essere Centro di Salute Mentale e Centri Diurni?
Un altra questione è legata invece al contesto: mi ha colpito il fatto che le persone coinvolte nella disgrazia siano state definite come schive, e che i vicini abbiano dichiarato di non conoscerle, se non di vista (Rai3 TGR del 20 giugno). Questa assenza di contatti credo sia una caratteristica della città più che delle singole persone, e credo che ciò debba far riflettere la nostra amministrazione comunale. Mancano progetti che possano stimolare iniziative nei quartieri, che partano dal basso e che rendano le persone protagoniste responsabili dei luoghi in cui vivono; ciò verrebbe a creare un importante substrato di relazioni sul quale innestare anche gli interventi di sostegno per i più deboli da parte delle istituzioni. Daniela Careddu
Grazie gentile Daniela! ‘Torniamo umani’ è il mio auspicio.
Ferruccio.