Sono diventata femminista a dieci anni quando una mia zia, vedendomi seduta a leggere sul ramo di un fico mi disse: “Una brava putela no’ la pol montar sui alberi”. Io risposi “Sì che posso, son già qua”. Lì per lì non avevo capito che c’era una differenza tra il poterlo fare, nel senso di esserne capaci e il poterlo fare nel senso della libertà di farlo. Quando chiesi perché mi fu risposto “No xe bel”. Amen.
Da quel momento fui infelice della mia condizione di femmina e ancora non sapevo che crescendo si rimane tali. E che di divieti ce n’erano tanti. Una brava ragazza non poteva fare tardi la sera, non poteva fumare per strada, non poteva andare in osteria, non poteva dire parolacce e così via mentre tutto attorno i maschi facevano questo e altro.
Sono nata e cresciuta a Gorizia, in una famiglia a maggioranza femminile: sette sorelle, mia madre, una zia e un padre necessariamente democratico. Obtorto collo.
Con autentica paura osservavo le mie belle sorelle maggiori attrezzarsi per il matrimonio come unica soluzione per la vita e unico destino. Le vedevo preparare il corredo che comprendeva sempre la presenza di un uomo anche se questo ancora non era presente nella loro vita. Le vedevo piangere per amore, le vedevo riporre senza rimpianto rossetti, trucchi e civetterie se questi non erano graditi al fidanzato di turno e in seguito al marito. Le vedevo private della loro allegria e spontaneità in presenza del maschio a reprimere il desiderio di un taglio di capelli o di una gonna più stretta.
Penultima di questo gineceo, sorvegliato da nostra madre che imponeva la disciplina con cipiglio militare, io e Costanza, la mia sorellina di un anno minore, guardavamo il tutto con crescente spavento e, appena adolescenti, cominciammo a disobbedire anche approfittando di qualche segno di debolezza sopraggiunto nella genitrice ormai stremata dalle altre.
Ci aiutarono i tempi che stavano cambiando, le ribellioni giovanili, la presa di coscienza politica e tutto quello che avveniva nel mondo in quegli anni. E poi ci fu il femminismo, e ci furono le lotte per rimuovere assurde leggi fasciste che consegnavano la donna al maschio come un armento, per il lavoro, per il divorzio, per l’aborto.
Ecco, mi fermo qui perché poi qualcosa ha cominciato a sfuggirci di mano, qualcosa stava operando sottotraccia, ci stava distraendo. Forse il troppo riposo dopo le conquiste ottenute, forse le lusinghe e gli inganni dei mezzi di comunicazione, forse un riarmo del pensiero borghese e del capitalismo, un ritorno consenziente al concetto di donna oggetto o un femminismo frainteso e troppo tentato dallo scimmiottamento del maschio… non so.
Ma quel che è certo è che mai, mai e poi mai avremmo immaginato che si sarebbe arrivati al femminicidio. La conta è da gelare il sangue. Una donna assassinata ogni due giorni. Senza contare altri tipi di violenza, da quella sessuale, allo stalking, alla deturpazione.
Ed è di quest’ultima che, quando mi è stato chiesto di scrivere qualcosa per il teatro sulla violenza alle donne, ho scelto di parlare nel mio monologo Acido che andrà in scena al Kulturni Dom il 16 gennaio. La deturpazione per una donna è peggio della morte e chi compie un gesto come questo è molto più di un assassino e molto più feroce dev’essere il suo odio.
Non dirò di più su questo lavoro che spero vedrà un pubblico di uomini e di donne nella mia città e nel teatro che sorge tra l’altro nel punto esatto dove c’era la casa, poi demolita, in cui sono nata. Un’emozione vera per me.
Come già sa chi ha letto qualcosa di mio, il mio stile letterario, sia nella narrativa sia nel teatro è di solito improntato all’ironia. Ebbene qui ci ho provato in lungo e in largo ma non ci sono proprio riuscita. Acido è un monologo drammatico, frutto del racconto di tante storie di donne ascoltate e lette, in cui non c’è nulla di cui sorridere. Ma c’e tuttavia un barlume di speranza nel finale a sorpresa di questa storia. Che non vi rivelo, è ovvio.
Venite a vederlo nell’appassionata interpretazione dell’attrice torinese Eleonora Manara, interprete anche di altri miei lavori tra cui Emma B. In scena a Roma a febbraio al Teatro della Visitazione per la regia di Fabio Luigi Lionello (il figlio del grande Oreste). Vi aspetto. Enza Li Gioi
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