In questo manicomio di città, ci vorrebbe un Franco Basaglia. Un altro, perché il primo se n’è andato via troppo presto, 40 anni fa oggi, lasciando il lavoro a metà. Sapeva benissimo che i “matti veri” erano fuori, e quelli che vedeva lui erano dentro solo perché erano meno numerosi.
Cambiare il contesto, quello che crea poi il manicomio. Rivoluzionare istituzioni e società, negarne l’utilità se non quella di mero controllo sociale e di mantenimento di uno status quo che identificava la persona con la malattia, non lasciando nessuna via d’uscita, comprendere la follia nella folla, non fosse che per quella i di troppo non siamo tutti parte di una stessa umanità. L’escluso come parte di noi che non si vuole guardare, perché ci fa paura, e allora lontano dagli occhi lontano dal cuore, perché “io non sono così”. La complessità della rivoluzione basagliana non può essere capita da chi non si è mai messo nei panni dell’altro.
Se chi ci amministra avesse solo letto due pagine del suo pensiero, avesse avuto la curiosità di scoprire cosa abbia comportato il coraggio delle sue azioni, non avremmo visto dormire centinaia di persone in una galleria, non avremmo tolto loro l’acqua, non avremmo negato loro i servizi igienici. Non andremmo orgogliosi di una app per i ragazzi che ti vende alla polizia. Non riceveremmo con la fascia tricolore chi collaborava coi nazisti alla soluzione finale. L’altro, sì, è sempre l’altro che ci dice chi siamo, che sia “matto”, “tossico”, “clandestino”, “frocio”, “ebreo”: l’etichetta gliela mettiamo noi, che siamo di più, e ci va bene non guardare nei suoi occhi e trovarci quella parte di noi che ci fa paura. Andrea Picco
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