Mi sono chiesta spesso ieri, in occasione di Diritti in Festa, se a parlare di diritti siamo più bravi adesso, post Covid (sarebbe meglio dire “in mezzo al Covid”), oppure no. Abbiamo sperimentato la clausura, l’impossibilità di muoverci senza un’autocertificazione, l’assenza di scuola per i nostri figli e, se è vero che ti accorgi dell’importanza di qualcosa quando la perdi, la risposta dovrebbe essere sì: siamo migliori.
Il condizionale suggerisce che non ne sono del tutto persuasa e il perché mi arriva sempre da alcuni discorsi ascoltati ieri, a cominciare dalle parole di Pierluigi Di Piazza che per parlare di migrazioni l’ha presa piuttosto larga, perché prenderla più stretta implica rinunciare ad avere una necessaria visione globale del fenomeno.
L’Europa che amiamo, culla dei diritti umani, ha un’altra faccia, quella dell’Europa che non amiamo che da oltre 500 anni questi diritti li calpesta esercitando un dominio sui popoli ritenuti inferiori, in un intreccio mortale tra cultura, politica e religione.
Un’Europa che oggi, per quanto riguarda l’immigrazione, merita solo una parola: vergogna.
Vergogna è ciò che accomuna i respingimenti tra Slovena, Croazia e Bosnia, il consumo dell’80 per cento delle ricchezze ai danni di chi non ha nulla, il capitalismo che genera ingiustizia sociale, i muri, i fili spinati, i porti chiusi, il foraggiamento della Turchia, l’incapacità di mettere mano all’accordo di Dublino e di costruire corridoi umanitari, la cecità sugli orrori dei lager libici, la corsa agli armamenti…
Ieri, però, è stata la festa dell’Europa che amiamo, di quella che progetta con i popoli il proprio percorso di crescita, del dialogo, della pace, del pluriculturalismo, della solidarietà, dello scambio di umanità, che mette assieme le diversità per la solidarietà, come la bellissima storia di Sos Balkan Route, quella di un’esperienza di aiuto messa in campo da una suora, un imam, una coppia di omosessuali e un punk.
L’Europa che amiamo è fatta di persone coraggiose, appassionate e resistenti che si mettono in rete spinte principalmente da un bisogno interiore, quello di dare un senso alla propria vita, e dalla volontà di sollecitare la politica a riappropriarsi di tutto ciò che oggi le manca: coraggio, passione e resistenza.
Una politica che, da destra per convinzione a sinistra per emulazione, ha risposto al fenomeno migratorio creando lager di Stato, come i ben noti Cpr, non luoghi in cui spesso vengono rinchiuse persone senza colpe penali, caratterizzati da condizioni igieniche precarie, in alcuni casi addirittura incompatibili a farci vivere esseri umani.
Lasciare in condizioni squallide migliaia di persone, come di fatto accade nei Cpr, ma come è accaduto anche a Gorizia all’epoca della VERGOGNA di galleria Bombi, significa di fatto per gli amministratori non rispondere al proprio mandato di tutelare la salute pubblica, in quanto una comunità può definirsi sana nella misura in cui riesce a proteggere chiunque vi passi, come ha ricordato ieri nel suo intervento Gianni Cavallini.
Se l’uomo pensa di poter governare le persone, i virus non conoscono né classi sociali né frontiere, come ci ha ampiamente dimostrato. Continuare a concentrare persone e privarle dei servizi essenziali significa, dunque, mettere a rischio anche la salute degli autoctoni. Eleonora Sartori
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