È un fatto acclarato che questa crisi pandemica ha fatto esplodere la povertà diffusa. Ne è evidente testimonianza il crescente numero di persone costrette a vivere in strada, numero destinato ad ampliarsi ulteriormente per la mancata proroga del blocco degli sfratti, ne è evidente testimonianza le chilometriche file di coloro che si rivolgono agli enti assistenziali per avere la “carità ” di un pasto o forme di aiuto per poter sopravvivere.
Non voglio assolutamente biasimare queste forme di volontariato che oggi rappresentano l’unica reale presenza capace in qualche modo di lenire la sofferenza di molti, ma voglio sottolineare che la povertà, sarebbe più opportuno chiamarla miseria, è un problema sociale ed al contempo rappresenta anche un rilevante costo sociale che quindi è un problema politico.
La povertà non è uno stato patologico, la povertà non è una questione di fortuna e sfortuna, la vita oltrettutto non può essere ricondotta ad una gigantesca e perenne lotteria, la povertà è semplicemente la conseguenza di una disarmonica distribuzione della ricchezza che, in conseguenza del progressivo allontanamento dello Stato dai processi produttivi e finanziari, sia in termini di presenza attiva che di controllo, ha premiato coloro che si sono potuti proporre da privilegiate posizioni di forza o hanno saputo fare uso di sfrontatezza ed arroganza.
In questo modo mentre un ristretto nucleo di soggetti ha incrementato in modo abnorme le proprie ricchezze la gran parte è stata posta ai margini esposta, senza possibilità di difesa, agli arbitri ed ai soprusi.
La povertà ha conseguenze rilevanti sulla vita individuale ma ha anche riflessi sulla vita sociale. La povertà comporta un forte isolamento delle persone coinvolte sia per la vergogna che ad essa viene naturalmente associata, sia per l’altrettanto naturale processo di emarginazione per il fastidio che essa apporta, sia per un progressivo crescere di un sentimento di frustrazione con inevitabili effetti depressivi. La conseguenza è in termini sociali il crollo delle relazioni interpersonali, lo svilupparsi dell’individualismo e quindi il venir meno di quel tessuto connettivo che trasforma un agglomerato di individui in comunità.
La povertà significa essere esclusi dalle possibilità di accedere alle cure, specie quelle di natura preventiva. Questo in una struttura sociale sempre più anziana è, non solo in forma prospettica, un aggravio di costi per un sistema sanitario già pesantemente penalizzato ed incapace di offrire una adeguata copertura.
La povertà significa escludere giovani generazioni da buona parte del processo formativo ed educativo. La conseguenza palese è che avremo nel prossimo futuro un pesante disequilibrio culturale con un crescente numero di persone non adeguatamente preparate e quindi globalmente una struttura sociale inadeguata a sopportare e rispondere ai cambiamenti che il processo evolutivo impone.
La stessa struttura avrà, anche, al suo interno dinamiche più rozze improntate a risolvere le conflittualità con la forza e non con il dialogo. In sostanza quindi in cui è più difficile sviluppare processi produttivi innovativi ed in cui la delinquenza, nella varie forme in cui si struttura, ha terreno fertile per prosperare.
La povertà quindi richiede una attenzione particolare della politica in generale e del governo in particolare. È un ragionamento che va fatto complessivamente in cui un riequilibrio distributivo della ricchezza cui associare un impulso alla capacità di crearne nuova sono elementi essenziali.
Saper e poter assicurare a tutti un reddito dignitoso e stabilmente certo è condizione da cui non si può prescindere per la sopravvivenza della nostra stessa struttura sociale. Severino Bigotto
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