Nel dibattito sulla città unica è imbarazzante la pochezza degli interventi delle categorie economiche. Schei sì, e basta. Infiocchettiamoli con la collaborazione, ma quello che ci interessa è che ci diano vantaggi sugli altri, punto. Questi sarebbero quelli che dovrebbero aiutarci a fare i conti col mondo globalizzato, con l’e-commerce, con Amazon, con la Cina, con tutto ciò che di peggio ha portato il neoliberismo, e si chiudono nella loro bottega sperando che qualcuno entri perché loro trent’anni fa vivevano sugli yugoslavi che venivano a comprare i jeans.
Il problema principale di questa città è che la politica ha messo i mediocri ai posti di comando, e li ha lasciati lì per quindici anni, spostandoli a rotazione di ufficio per dare un’imbiancata al sepolcro. Questo è il primo problema. Persone che non si sono mai spinte col pensiero oltre a Mossa. E che non hanno un’idea che sia una, da quindici anni almeno.
La città unica è l’unica possibilità per questo territorio, e questi non lo capiscono o fanno finta di non capirlo, servi di altri padroni a cui conviene che questa realtà resti depressa. Sperano negli aiuti di stato, questo è il massimo orizzonte disponibile. Intanto la città perde tutto e su tutto, e non ha prospettiva. Perde abitanti, perde attività, perde addirittura il consorzio industriale perché qua non serve più, perde la sanità, perde l’università, perde il ruolo di capoluogo a favore di Monfalcone, perde il significato stesso di essere definita città, ridotta a paesotto di provincia che si vanta di un passato glorioso sempre più lontano.
Siamo sempre di più il conte Max del celebre film di De Sica, o meglio il conte Mascetti di Amici miei. Costretti a fare “il rigatino”, cioè travestirsi da facchino per scappare dall’albergo perché il conte non ha più una lira per il conto. Con questi non resta che prepararsi a vendere i gioielli di famiglia, se ancora ne sono rimasti. Andrea Picco
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